#As-saggi crossmediali: CIVILIAN. DA L’OMBRA DELLO SCORPIONE A THE WALKING DEAD.

Presente: lo squarcio che si apre davanti al nostro sguardo è un mondo devastato, un virus non identificato, probabilmente creato in laboratorio, sfugge al controllo e infetta l’intera popolazione. Quasi tutti sono morti tranne singole persone che si coalizzano in piccoli gruppi. Ognuno ha una personalità ben definita, messa in discussione da un’ipotetica fine del mondo. Ogni gruppo decide quale strategia adottare, se restare civili o se diventare predoni per sopravvivere. Non ci sono dubbi però: quello che vogliono fare tutti è restare vivi, e non importa cosa è necessario fare.
Ogni gruppo ha un leader, qualcuno su cui addossare le incertezze degli altri, qualcuno che decida per tutti, qualcuno da accusare se le cose vanno male. Ma i leader quando non hanno più speranza, quando il mondo forse sta per finire, mettono in discussione sè stessi, cosa sembrava sbagliato e cosa improvvisamente sembra giusto da fare.
Lo scenario è quello di ampie zone americane, campi di mais, deserti, boschi, autostrade desolate. Ad un certo punto tutti, attraversando a piedi terreni impervi, si dirigono verso un punto preciso, dove c’è qualcosa o qualcuno che sembra avere la soluzione a tutto.
Di cosa sto parlando? Del libro bellissimo di Stephen King L’ombra dello scorpione (titolo originale “The Stand” pubblicato nel 1975, romanzo da cui- nel 1994- nascerà una miniserie televisiva) ma anche del telefilm prodotto dal 2010 (e ovviamente di conseguenza del fumetto, in uscita dal 2003 e edito in Italia da Saldapress) The Walking Dead.

Non sono la stessa cosa, in uno c’è il demonio, nell’altro il demone di un virus zombie ma quello che sicuramente li accomuna (è probabile che Robert Kirkman abbia letto e fatto rivivere nel suo lavoro, le atmosfere del libro di King) è il concetto di Civilian (fra l’altro canzone tema del telefilm di Kirkman dei Wye Oak nella prima stagione). Essere civile in un mondo al capolinea è possibile? Il concetto di civiltà e di società resta in piedi quando lo stesso essere umano mette in discussione l’altro e la propria essenza? Le categorie dell’uomo pensante e democratico si ribaltano e concetti come giusto e sbagliato, bene e male, fiducia e giustizia, vita e morte sono svuotati del proprio significato per averne di nuovi.
The Walking Dead ha una velocità propria del linguaggio del fumetto, che non stimola tanto queste riflessioni ataviche sull’umanità a differenza del telefilm, che approfondisce invece con un ritmo più lento, scandito sul respiro dei personaggi.
In entrambi i lavori (capo-lavori) il male incarnato dal diavolo e il virus zombie, le cause scatenati dell’apocalisse, finiscono presto in secondo piano. Quello che diventa il vero problema è l’altro civile accanto a te, e il tuo concetto di essere civile.

King scrive nel suddetto libro: «Se torni da queste parti, Stu, e rinnovi l’invito a unirmi a te, probabilmente accetto. È questo il destino della razza umana. Socievolezza. Vuoi che ti dica che cosa ci insegna la sociologia a proposito della razza umana? Te lo dico in poche parole. Mostrami un uomo o una donna soli e io ti mostrerò un santo o una santa. Dammene due e quelli si innamoreranno. Dammene tre e quelli inventeranno quella cosa affascinante che chiamiamo “società”. Quattro ed edificheranno una piramide. Cinque e uno lo metteranno fuori legge. Dammene sei e reinventeranno il pregiudizio. Dammene sette e in sette anni reinventeranno la guerra. L’uomo può essere stato fatto a immagine di Dio, ma la società umana è stata fatta a immagine del Suo opposto. E cerca sempre di ritornare».

Riflessioni che non sembrano lontane da una vicina realtà.

Annalisa Rascato.

© Annalisa Rascato 2014 per Inkistolio: Storie Orticanti. RIPRODUZIONE TESTI RISERVATA.

#Recensioni: Undici solitudini – Richard Yates.

11 solitudini

Undici solitudini – Richard Yates. Pagine 257. Minimum Fax 2006.

Recensione di Ilaria Scarpiello.

“Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.”

La solitudine, fedele compagna dell’uomo cosiddetto moderno, non va ignorata, va raccontata. La solitudine va cantata, descritta, la sua esistenza va diffusa, non nascosta sotto il tappeto come spazzatura. Solo in questo modo si ha la possibilità di sentirsi meno soli, almeno per un po’. Richard Yates, burbero cantore di storie dirette come pugni allo stomaco, ne racconta undici nella raccolta di racconti “Undici solitudini”, riedita da Minimum Fax nel 2006. Racconti che descrivono le vite piene di solitudine di persone “normali”, maestre e tassisti newyorkesi, segretarie e aspiranti scrittori di Manhattan e Brooklyn, che sognano il successo, l’ambito sogno americano degli anni sessanta, le possibilità e le occasioni promesse a tutti e che faticano a palesarsi. I personaggi di Yates, in fondo, sembrano intuire che non tutte le storie hanno un lieto fine, ma sembrano scacciare via questo orrendo pensiero dalla testa come si fa con una mosca troppo insistente e fastidiosa. Come fare a sopportare tutta questa immeritata solitudine, allora? Proiettandola sugli altri, su chi ci sta intorno, ovviamente, una difesa psicologica che raramente fallisce, ma che rende incompleti e nevrotici. I protagonisti di questa raccolta di racconti di Yates sono cattivi, tristi come chiunque non si mette mai in discussione, come chi pensa di essere sempre dalla parte della ragione, di non avere mai torto. Ai vessati restano solo gesti di rabbia, episodi di vacua violenza, che lasciano stremati e vuoti e incompresi. “Undici solitudini” è un capolavoro, uno specchio in cui rifletterci e vergognarci, perché abbiamo sempre qualche motivo per cui vergognarci. “Undici solitudini” mostra in tutta la sua potenza le capacità di un autore, Richard Yates, che ha contribuito in prima persona alla grandezza della narrativa americana del secondo Novecento.

Per saperne di più o acquistare il libro: http://www.minimumfax.com/libri/scheda_libro/72

© Ilaria Scarpiello 2014 per Inkistolio: Storie Orticanti. RIPRODUZIONE TESTI RISERVATA.

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