Il 23 gennaio scorso, dopo aver lottato per quattro anni contro il cancro, è morto lo scrittore cileno Pedro Lemebel. Quando avevo vent’anni, preso dal furore di quell’età, scrissi per una rivista letteraria di cui non ricordo più il nome una non-recensione basata sulla lettura del suo primo romanzo: “Ho paura torero”. Di notte sognavo di incontrare Pedro. Per leggergli la mia recensione e abbracciarlo. Scusami Poeta Pedro per questa non-recensione; e per quei sogni.
Buon viaggio.
“Ho paura torero” del cileno Pedro Lemebel non è “solo” un libro; è un cuore di carta che pulsa di amore e lotta politica. In una Santiago sdrucita dal regime dittatoriale vive un travestito di quarant’anni, la Fata dell’angolo. La Fata è un personaggio incantevole che agisce col suo sguardo caleidoscopico sul vivere quotidiano, dando colore a una vita che non sempre è a colori. Il mondo in cui vive, piccola e misera abitazione, è il palco su cui ben recita la parte di ricamatrice di stoffe per conto delle donne dei quartieri benestanti. Infatti, quando non ricama, nasconde casse di legno- pare pieni di libri, e a lei basta sapere questa verità per accettare le cose come stanno- che diventano mobili per la sua abitazione. Non fa solo questo la Fata, che per amore del bel Carlos, un giovane studente del Fronte Patriottico, offre la soffitta del suo “regno” per le riunioni clandestine dei militanti. Nel desiderio di concedersi all’altro la Fata dal cuore dolce e dagli occhi vispi, trova la forza di correre innumerevoli rischi pur di rimanere fedele a quel gruppo di compagni e militanti. Riesce a farlo reinventando in modo tenero sguardi e gesti di uno studente-militante a cui non riesce mai a dire no.
Tutto ha luogo in una Santiago lacerata dalle grida continue di sirene dell’autorità locale, a cui fanno eco i cori delle famiglie dei desaparecidos in cerca di giustizia. In questo piccolo inquietante teatro sociale si muove quella marionetta che con le proprie mani impasta la torta amara del regime: Pinochet. Il vivere quotidiano del dittatore è alimentato dai ricordi della sua infanzia e dai continui incubi che lo riconducono al mondo reale, popolato esclusivamente da una moglie ipocondriaca che riempie le sue orecchie di richiami isterici e paurosi. Quando non c’è la moglie a recitare filastrocche fatte di regole da seguire per condurre una vita sfarzosa, il dittatore Pinochet si perde nei suoi pensieri ascoltando marce musicali di ogni epoca.
Quanto accade nella storia ben descrive la distanza fra quartieri poveri e quartieri ricchi di Santiago, una distanza che è sospesa sulle onde radio delle trasmissioni del regime: l’unica voce che racconta alla Fata la verità sulle azioni-reazioni che i giovani “studenti” disegnano per capovolgere le sorti del Paese.
Un romanzo intriso di satira che racconta, con stile e leggerezza, una terra in subbuglio. Un libro che regala voglia d’amore e di rivolta, mentre in sottofondo si sentono passi cadenzati di una marcia dittatoriale prossima alla fine.
Io voglio morire nella Campania mia, senza sentire una nuova litania. Qui non c’è altro che apatia, che fare? Prendere la valigia e andare via? Campania mia, sei morta per mano mia? Mamma mia- se lo canti in giro- poi ti dicono: VATTENE VIA! Terra mia, qui neanche in sagrestia trovo una voce capace d’ascoltare… Perché, si sa, qui son tutti bravi a reclamare attenzione e ovazione; quando poi nessuno sa dirmi cosa si nasconde sotto i terreni di questa bella stazione: luogo d’arrivo della MONNEZZA DI MEZZA NAZIONE.
Da quando son nato in questo sud malato mi sento diverso ma mica sfortunato: qui ogni giorno di vita è guadagnato. Io vi canto non le gesta, ma l’ira funesta di una Campania morta, mai risorta che oggi soffre a causa di una comunicazione DISTORTA. Dicevano che il problema a Casal di Principe era Capa Storta, secondo me lì la questione è un’altra ed io non ho di certo la memoria corta: qui, stavolta, nessuno sa come spartire la “torta”. Accendo la tv e c’è un comico che parla facendo il critico del caos politico precisando di essere un uomo apartitico. Mi vien da ridere per poi dire: mio caro guru, a me pari davvero un Ero guro smettila di fare il puro alza la cardarella e mettiti a lavorare pure tu sotto il muro. In giro parlano di cibo biologico, secondo alcuni buono e logico. Per me quel cibo non è magico, ve lo dirò in modo pratico: la sopravvivenza non è un fatto di buona creanza alimentare, la questione è proprio elementare: se mangiate crepate, se non crepate vi abboffate di una pietanza colme di strafottenza. Non negate l’evidenza: queste terre ve le siete già scordate, pure se al tg ne parlate.
Da quando son nato in questo sud malato mi sento diverso ma mica sfortunato: qui ogni giorno di vita è guadagnato. Odio i pessimisti, mi sembrano quasi tutti figli d’egoisti e vi dirò di più: non stimo neanche i carrieristi, gli arrivisti e tutti quei bravi qualunquisti che si fingono comunisti pur di vivere da opportunisti. Mi nonno contadino diceva: Ma chi so chisti?
Spesso mi domando, mettendo da parte i buoni intenti, a voi politici attenti chi mai vi ha visti così attivisti-ambientalisti-pacifisti? Vi domando: Voi conversate mai con i povericristi? Non chiedetemi risposte, forse non le vedo perché nascoste… Provate voi a fare i conti senza l’oste, io sto qui a guardare il mio vicino che veste laaa…coste! Sua moglie ha le gote rosse, lavora alle poste e mangia chili di aragoste: secondo voi chi è che evade le tasse del sistema imposte?
Guardo lui e penso: se tutto questo ha un senso, se vivere e necessario, perché quando parlo di queste cose mi guardano tutti come un dromedario che mastica cibo fuori orario?
Ora te lo faccio io l’inventario, una sorta di promemoria ideario: a noi campani non servono spot firmati da blogger in posa hot. Né canzoni d’onore, né citazioni per l’amore né medaglie al valore. Io mi fido solo di quel sentore, che smuove i battiti del cuore: gli attriti pro e contro i partiti lasciateli a chi crede ancora nel potere dei miti. Non c’è tempo per salvare il futuro, né campo per ritornare a giocare duro e non è solo una questione di stampo camorristico o affaristico: ve lo dico io che non sono un salvatore mistico né un attore, né un nuotatore né un calciatore. Da quando son nato in questo sud malato mi sento diverso ma mica sfortunato: qui ogni giorno di vita è guadagnato.
Né lobbies né hobby, dimenticatevi pure i quadernini con Holly e Hobbie: qui o si vive o si muore quasi sempre di tumore. Nel pomeriggio di ieri, parlando di cronaca nera, un presentatore con le manie di grandezza fa dichiarazioni con cui lo share schizza: “Sopravviva, signora Nora. Lo faccia per la forza di chi la onora. Da lassù tutti guardano chi sta quaggiù, su non dica così… qualche onorevole caritatevole troverà un sistema per rispondere a questo anatema chiamato monnezza: Prima o poi qualcuno dirà basta a quella schifezza! Noi saremo qui, ad accoglierla con schiettezza. In fondo, la campania, è pur sempre una terra fatta di tanta bellezza!”
Da quando son nato in questo sud malato mi sento diverso, ma mica sfortunato: qui ogni giorno di vita è guadagnato.
Ho pure io una serie di comandamenti, leggete anche incitamenti:
Primo: non firmerò per nessuno programma d’azione. A meno che non m’interpelli l’intera Nazione.
Secondo: Faccio un girotondo senza gridare TUTTI GIU’ CASCA IL MONDO. Non servono strilli, proclami e dettami per aiutare il mondo: qui c’è in gioco il futuro di un territorio che un tempo era fertile e fecondo.
Terzo: Se mi hai compreso fin qui, non fare come quel ministro lì. Te lo ricordi quando venne ad Aversa? Disse poi dopo: “Sono stato male inteso, qui non si muore di tumore per via del sovrappeso. Ora mi sento un uomo offeso e come tutti voi sono pure indifeso, retto e corretto. Chi mi ha scritto quella dichiarazione, non aveva capito la situazione.”
Quattro: Ve lo ripeto una volta per tutte: questo guai grosso non è solo napoletano o casertano ma campano: QUALCUNO LO CHIAMA PROBLEMA ITALIANO?
Quinto: Se mi avete ascoltato e non avete fatto il quadrato della situazione dimenticate ogni proposta di soluzione, se qualcuno vi fa una promessa ditegli di risparmiarla per la santa messa.
Sesto: Sapete ho proprio un tic, leggere i libri del visionario Dick. Conosco pure la trama di Tempo fuor di sesto, ora ve lo ripeto e poi mi assesto; questo rap campano mostra il gap monnezzaro italiano e parla a chi si crede meglio del comandante Giap: le patatine fanno crock, l’orologio fa flick tu ogni volta che parli sui face book sostieni soltanto i clic, capito we like it?
Lascia la scrivania, vieni in questa Terra mia e prova a prendere un cesto: raccogli frutta e verdura di quella che sembra più pura. Poi analizzala: capirai che non c’è cura. Fra le mura, di chi vive qui è dura: quando mangi hai paura, ti fai un sorso di acqua impura e dici ai familiari: “Quanto splendeva il mare della Campania durante la calura? Oh ecco che terra felice come dice la presentatrice: Venite in Campania,qui troverete frescura e pace, mai calura. Una terra davvero pura.”
Serva una pausa, qualcuno forse mi farà causa:
Intanto, d’estate, tutta l’informazione taceva… Se non quella turistica e di parte che Capri, Ischia e Sorrento ritraeva, per vendere il mare inquadrato ad arte e il vesuvio ritratto da ogni parte. Nessuno diceva: da quella terra c’è chi parte, sognando di vivere su marte o leggendo carte pur di cambiar vita. Altri ha rifatto pure il girovita: la loro saccoccia s’è riempita con una vera pepita: quella fatta di monnezza imballata che produceva ricchezza e contentezza negando ogni salvezza. ”
Settimo: E ricorda ora per allora: Prima o poi quell’ illusione svaniva, la vacanza finiva… e il cibo che marciva puzza e ripopolava tv e giornali, locali e nazionali. Pure gli azionisti del volontariato son diventati esperti di cibo intossicato e territorio inquinato.
Ottavo: Il potente di turno il naso si è soffiato sulla mano, e contando fino a otto ha poi detto nel 2008: IL PROBLEMA DEI RIFIUTI E’ RISOLTO. Tutti ci abbiam creduto e il parlamento lui ha aiutato, ora ecco il risultato: tutto il sud ingolfato, l’italiano medio è spaesato ogni contadino si è indignato. Un territorio come il nostro, venduto o regalato, rimane pur sempre malato.
Nono: No-no. Non è finita qui. Ho qualcosa da dire pure verso chi dice LA CAMORRA HA PERSO. Io guardo in cielo e vedo il cielo ancora terso, ogni valore si è disperso: Ora dimmi, sono io che tergiverso o la Camorra in tutto questo affare non ha mai perso?
Dieci: Eccoci qui ad analizzare le nostre feci, e a sentire chi parla per fare le vostre veci. Mi riferisco pure agli attanti che dicono di essere amanti della Campania. Siete: cantanti, attori, nuotatori e presentatori. Forse i migliori… ma pur sempre gente che vive lontano da questi odori. Fate tutti una vita nella tv tutta colori: che ne sapete dei nostri morti per tumori?
Il canto è finito, perdonate questo mio gesto inaudito: sicuramente rimarrà l’urlo rauco di un giovane striminzito. Vi prego, se mi sentite in giro, non alzate quel dito… non servono le accuse da persona arrogante se ho notato che la colpa DI QUESTO GRAN CASINO va distribuita a menadito. Il rap è qui finito perché io sono sfinito: fra un po’ è ora di pranzo, c’è chi davanti al manzo siede per il pranzo. Non chiamarmi gonzo: te lo ripeto ancora un po’, poi vado a zonzo: Questa Campania mia non è morta per mano mia. Ti senti indignato o avvilito? Secondo me non lo hai ancora capito.
Quando sognavo Dorothy Parker che ascoltava Alanis Morrisette.
Questa volta non parlerò di un telefilm, di un libro o di una canzone, ma di un periodo preciso e speciale, una vera e propria era: gli anni ’90. Sono tante le citazioni, i riferimenti, le musiche, gli stimoli di quegli anni. Al contrario di quanto accade oggi: gli impulsi più intensi arrivano dagli smartphone, quando è solo la vibrazione di chiamata…
Negli anni ’90 io ero adolescente e dopo aver vissuto l’inferno quotidiano del liceo, tornavo a casa per consolarmi guardando MTV; una rete che all’epoca trasmetteva quei brani che hanno fatto la storia della musica della mia generazione. Mi avvolgevo nel mio camicione grunge ascoltando di volta in volta le note di quelle canzoni che, a mia insaputa, avrebbero fatto storia. Attendevo con ansia il sabato, perché alle ore 14 sulla rete televisiva TMC2, passavano un programma chiamato Sgrang. Un vero e proprio contenitore di musica heavy metal, rock, hard rock, grunge davanti al quale potevo lasciarmi trasportare da assoli di chitarre elettriche e voci rauche di capelloni. La cosa davvero strabiliante di quei momenti è che Sgrang lo guardavo con mia madre.
Lei è per me il sole da cui si sono irradiati tutti quegli stimoli culturali che trovavo affascinanti e forti perché in opposizione alla banalità e piattezza dei miei coetanei e della realtà che mi circondava.
La voce di Tori Amos mi conduceva in luoghi lontani e surreali, dove le ragazze cornflake erano finalmente giudicate ragazze puritane e banali, mentre le raisin girls, erano apprezzate, danzando sui tasti bianchi e neri senza essere giudicate. I suoi brani erano intrisi di tristezza, e raccontavano di un padre reverendo e uno stupro da dover dimenticare. I suoi testi narravano del mondo femminile e di una ribellione indispensabile per essere liberi.
Una rivoluzione di cui cantava anche Tracy Chapman, che mia madre ascoltava di continuo da quando ero molto piccola. Chapman con la sua voce scura in gola e la rasta in testa, sussurrava di una rivoluzione che sarebbe arrivata: “Non lo sai, stai parlando di una rivoluzione, Risuona come un sussurro, Mentre fanno la coda per il sussidio, Piangendo alla porta di quegli eserciti della salvezza, Sprecando tempo in coda agli uffici di collocamento, Restando seduti in attesa di una promozione, I poveri insorgeranno, e si prenderanno la loro parte, Non lo sai, faresti meglio a correre, Perché finalmente le cose stanno iniziando a cambiare, parlando di rivoluzione, Talkin’ bout a revolution”.
Lo stesso senso di ribellione che ritrovavo anche in due eroine dei cartoni animati: Daria e Lisa Simpson. Lisa per la sua intelligenza repressa in un mondo stupido e superficiale e Daria, per il suo sarcasmo coma arma di difesa in “questo triste mondo malato”.
Ancora su Mtv seguivo un telefilm che si chiamava Popular e raccontava di una guerra liceale tra bionde e brune, dove le bionde erano le belle e perfide adolescenti mentre le brune erano le sfigate, intelligenti che sfoggiavano originali outfit e magliette di Emily The Strange, aspettando solo la rivincita all’università. Io parteggiavo per le brune.
In quegli anni altra vera rivelazione fu la canzone che faceva da sigla al telefilm prima citato, Supermodels di Kendall Payne che con i suoi capelli corti e colorati, gridava un nuovo slogan: “Odiamo le supermodelle, non c’è nulla di personale, è solo che siamo stanche del confronto”. Ecco qualcuno che gridava i miei pensieri che avevano vita nella mia testa e poi sulla carta dei miei diari: “Cosa è causa delle tue lacrime… combattere per una taglia? Pensaci su un paio di volte, cosa dura di più in questa vita, la personalità o cosce sode? Credi che la bellezza sia in quello che vedi? Allora se pensi questo sei stata ingannata!”.
In quegli anni pensavo seriamente che Sylvia Plath avrebbe potuto apprezzare quel pezzo, che forse avrebbe citato quella canzone nei suoi diari che avevo divorato e amato alla follia. Anche io mi sentivo sotto una campana di vetro. Purtroppo, col tempo, notavo che molti scrittori, pittori, cantanti, artisti che ammiravo erano morti suicidi, e questo fu tutt’altro che incoraggiante per la mia formazione culturale!
La follia vissuta da alcuni di loro mi fece scoprire grandi donne che avevano fatto la storia della letteratura; donne come la stramba Emily Dickinson e la bipolare Virginia Woolf. Quest’ultima in Una stanza tutta per sé, mi aveva fatto adorare ancora di più quel mondo femminile letterario popolato da donne che avevano vissuto, nonostante il loro talento, nell’ombra. Mi interessai alla formazione artistica delle scrittrici più difficili d’animo dei secoli precedenti. Leggendo tutte quelle pagine così evocative perché composte da parole forti e vissute, nate da una forma di repressione che trovava sfogo nella scrittura in prosa e nell’espressione poetica. Un gesto, quello del ribellarsi, che necessitava di mostrarsi anche esteticamente. L’idea mi venne quando arrivò sullo schermo un faccione riccio -forse la ragione del mio primo piercing ad anello al naso- di una donna fuori dal comune: Joan Osborne. Lei umanizzava nel testo di One of us – molto evocativo il video che mostrava un circo con freak e reietti – chi potesse essere Dio. Quell’idea che qualcuno potesse ipotizzare un Dio in carne (un perdente o uno strano su un autobus, come recita la canzone, che cercava la strada di casa) mi apriva a un mondo di riflessioni personali.
Voglia di ribellione che sfociava in un rock non elevato, ma leggero. In fondo un po’ di leggerezza ci voleva e chi meglio di Courtney Love (e della sua band), poteva rispecchiare quello stile? Cantando “vivi di nuovo, non lasciarti morire” io vedevo sullo schermo del televisore palme in fiamme e donne rock che mi mostravano come si poteva essere un po’ glamour.
Meredith Brooks però, mi riportò con i piedi per terra, quando con il suo rock cantava che odiava il mondo e con quello che sembrava un mantra “I’m, a bitch, I’m a lover, I’m a child, I’m a mother, I’m a sinner, I’m a saint, I do not feel ashamed, I’m your hell, I’m yor dream, I’m nothing in between, You know you wouldn’t want it any other way, quindi prendimi per quella che sono”. Le sue parole ben rappresentavano la complessità dell’essere donna, nei suoi molteplici ruoli. Ricordava agli uomini che se avessero smesso di cercare di capire, “limitandosi” ad amare e basta e ad essere forti, allora sarebbe stato tutto più facile.
D’un tratto però scorrevano immagini che mi turbavano, rimarcando che le vere riflessioni devono fondarsi su questioni sociali, e la voce straziante di Dolores O’Riordan dei The Cranberries gridava zombie, (“e i loro carri armati e le loro bombe, e le loro bombe e le loro pistole… piangono ancora nella tua testa”) mentre lei completamente dorata sulla pelle intimava a reagire.
Grazie però ad Alanis Morissette, capii che si poteva reagire e difendersi con un’arma potentissima: l’ironia. Mentre si contorceva in auto con i suoi lunghissimi capelli ricci, gridando dopo una serie di orrende coincidenze che possono capitare nella vita, “è ironico non credi?”, mi dissi che forse l’ironia mi avrebbe salvato da un mondo che non sentivo mio. Poco dopo in mio soccorso arrivò una donna fantastica, Dorothy Parker, che con i suoi occhi espressivi e buffi cappelli, la sua irriverenza e l’etichetta di “comunista”, notava come molti metodi di suicidio fossero sopravvalutati e quindi- come lei sosteneva- tanto valeva vivere. Si premurò in vita, di far scrivere come epitaffio “Scusate la polvere”. Mostrando così come l’ironia potesse funzionare anche da morti. Forse le sarebbe piaciuto ascoltare Ironic della Morissette, magari danzando sulle note di quella canzone.
Quella stessa ironia mi fece scoprire dei personaggi che nel fumetto e nel cinema aprirono ulteriori orizzonti:
Mafalda di Quino e Mercoledì della famiglia Addams.
Mercoledì nutriva il mio amore per il macabro, con i suoi vestiti neri e la bambola senza testa mostrava che lo stereotipo della Barbie e delle principesse poteva essere distrutto. E il fatto di avere una famiglia un po’ strana faceva sì che la mia apparisse un po’ più normale. Mafalda, nata molto prima, ma da me letta e riletta negli anni Novanta era invece quella bambina che più mi assomigliava, ricci ribelli, sensibilità verso le questioni sociali e ipercriticità verso il mondo. Tutte doti che non venivano sempre apprezzate.
Tutte queste donne, fatte di carne e carta, musica e scrittura, hanno influenzato il mio modo di essere e le ringrazio una ad una. Scusandomi con tutte quelle che non ho nominato in questo viaggio in rosa fatto a ritroso negli anni ’90.
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