Cinque domande a Alberto Prunetti

Amianto. Una storia operaia.

“Non voglio alimentare immagini romantiche o idealiste: si è scrittori come si è imbianchini o falegnami.” (Alberto Prunetti)

Scrittore e “operaio” della cultura; per quanto mi riguarda anche filosofo, inteso come pensatore che solleva dubbi esistenziali. Ci sono domande cui vorresti rispondere con la tua scrittura? Il tuo libro, “Amianto. Una storia operaia” pubblicato da Agenzia X editore di Milano sta avendo un successo meritato. Te lo aspettavi?

Macché filosofo: i dubbi esistenziali li solleva nel libro il montacarichi. Più seriamente: assolutamente no, non mi aspettavo la relativa “risposta” di pubblico di Amianto né la pletora di recensioni che sono arrivate da tutti i fronti. Sorprendente, considerato anche che l’editrice è una piccola realtà che non ha i mezzi per spingere i propri titoli al di fuori di certi circuiti di movimento. I miei precedenti lavori di scrittura poi erano stati recepiti da un pubblico di nicchia e non mi aspettavo che “Amianto” riunisse nella lettura i giovani e i pensionati, i ricercatori d’italianistica e gli operai in cassaintegrazione. Ovviamente “Amianto, una storia operaia” non lo legge chi sfoglia un libro come si prende un tranquillante. “Amianto”, a quel che mi dicono i lettori, è un libro che per una notte toglie il sonno. Però pone delle domande e alimenta un bisogno di autobiografia popolare e di riflessione sul mestiere di vivere e sulla condizione dell’operaio e del precario che è significativo, visto l’incalzare della crisi economica. Tenta anche di spiegare questi fenomeni (l’operaio, il precario e la crisi) storicizzandoli, contestualizzandoli e riannodando i fili delle generazioni, senza ricorrere a letture banalizzanti e tossiche, oggi diffuse, che alimentano la guerra tra poveri.

Secondo te perché in Italia nessuno, o quasi nessuno, ha il coraggio di raccontare storie operaie ancora oggi?

Perché ci riempiono di storie di capitalisti che hanno successo. La gente vuole sapere come un rampollo di famiglia benestante ha fatto i soldi o come li ha fatti Steve Jobs. E deve credere che siano persone che si sono fatte da sole o che hanno avuto buone intuizioni. Ovviamente è una presa in giro, ma quel che viene diffuso è il punto di vista del successo, del vertice, della presunta eccellenza. Io volevo raccontare una storia di segno esistenziale rovesciato: la condizione operaia: una condizione umana che coinvolge milioni di persone al mondo. Anche quelli che oggi non spostano merci sui muletti né saldano tubi in cima ai ponteggi, forse sono cottimisti della cultura: (figli di) operai senza più un’industria, forse senza neanche un lavoro degno, che si aggrappano a un titolo di laurea privo di valore.

Ho amici che lavorano nell’editoria e in altri aziende culturali. Forse anni fa suonava romantico dire: “Lavoro nell’editoria”. Oggi, considerato quanto denunciato dalla Rete Scrittori Precari, accade davvero di scrivere tanto e bene. Senza mai avere una retribuzione dignitosa. Te la senti di dirmi la tua a proposito di questa triste situazione?

Bisogna esigere che il lavoro sia pagato, anche quando si tratta di lavorare nelle case editrici dell’editoria piccola o militante. Bisogna astenersi da fare tirocini e pretendere non solo la paga ma anche un inquadramento. Il problema è che le leggi servono ad alimentare la precarietà, non a ridurla. Finché non ci sarà una normativa più stringente per i datori di lavoro, finché i sindacati continueranno a fare orecchie da mercanti con i precari (del terziario, dell’industria e della cultura, fino agli invisibili lavoratori stranieri), finché non ci sarà un reddito sociale che renda più attraente rimanere disoccupati piuttosto che fare tirocini gratuiti che forniscono alle editrici la manodopera di redattori schiavizzati, io la vedo dura.

Alcuni pensano che si scriva per tutta la vita. Tu, che in un’intervista di qualche tempo fa mi hai detto, a proposito della tua scrittura futura, “NON HO FURIA” pensi di continuare a scrivere per tutta la vita? O ritieni che ci sia un giusto tempo per le storie?

Scrivo tanto, anche troppo, ma spesso scrivo in maniera invisibile, come traduttore. Vale a dire che metto le mie parole a servizio di libri di altri. Nel tempo libro cerco di scrivere le storie che mi gravitano attorno, com’è successo con “Potassa”, con “Il fioraio di Perón” e con “Amianto, una storia operaia”. Nel mezzo passano degli anni e dei problemi. Non credo alla figura dello scrittore che racconta il suo mondo interiore, in contemplazione narcisistica. Lo scrittore è uno che interviene con lo strumento della scrittura per incidere in quei problemi sociali che gli stanno a cuore. Anche con la narrativa d’inchiesta, con il romanzo, con la fiction. Soprattutto non voglio alimentare immagini romantiche o idealiste: si è scrittori come si è imbianchini o falegnami. E’ un artigianato della scrittura che ha bisogno di tanta pratica e anche di momenti di sospensione. La scrittura va anche centellinata, diluita, sennò rischia di diventare grafomania.

 Alberto Prunetti*, traduttore e scrittore, è nato a Piombino nel 1973.  Ha scritto Potassa (2003),L’arte della fuga (2005) e Il fioraio di Perón (2009). Ha collaborato con “Il manifesto” e “A-Rivista”. Nel suo ultimo libro Amianto. Una storia operaia racconta la vita dell’operaio Renato (suo padre) con pagine amare ma sincere.

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