Chi vi ha mandato? Venite da lontano? A chi appartenete?

Venditrice di lumache casertane.

Per un periodo della mia vita, qualche anno fa, pur di sbarcare il lunario mi sono cimentato in lavori fuori da ogni mia aspettativa. Voglio dire: ci sono lavori che quando li vedi svolti da altri, per la fatica che comportano, dici a te stesso che mai e poi mai farai qualcosa del genere per sopravvivere. Ottimismo della giovane età di un aspirante scrittore, potremmo definirlo. Infatti, come accade spesso, la vita contraddice in pieno le nostre intenzioni.
In quegli anni, ogni giorno, salivo in sella alla mia bici chiamata Silver e – in cambio di uno stipendio da fame pagato a 180 giorni dai signori di certe cooperative sociali del sud che lucrano sulle spalle dei poveri cristi – percorrevo cinque chilometri, per andare a casa di una coppia di anziani che mi aspettavano dal lunedì al venerdì: piena estate, sole cocente, automobilisti strafottenti che fingevano di non vedermi tagliandomi la strada di continuo.
Arrivavo a casa del signor T e della signora D stanco e sudato, come uno che ha attraversato un pezzo di deserto con il sole allo zenit. Dopo un saluto veloce e una breve sosta in bagno per cambiare la maglietta sudata che indossavo avvicinavo il signor T per capire come stava: gli facevo sempre le stesse domande sulla sua salute e su come aveva dormito, sul pranzo del giorno e sul cielo sulle nostre teste e lui, puntuale, le evitava tutte.
Replicava alle mie domande con tre quesiti esistenziali fissi:

Chi vi ha mandato? Venite da lontano? A chi appartenete?
Ogni volta mi presentavo, gli parlavo un po’ di me e appena conquistavo la sua fiducia quotidiana riprendevamo – come il giorno prima – a giocare a carte: tornei interminabili a due di scopa, briscola e rubamazzetto.
La signora D, malata da diverso tempo ma più lucida del marito T, indossava i suoi anni di vita come un vecchio vestito cucito male prima, e consumato troppo dal tempo… dopo.
Eppure, D, era dolcissima: felice delle mie visite e dell’aiuto che le davo in casa quando stava bene, parlava con me per ore della sua vita passata, dei sogni che faceva, delle strane facce che vedeva ogni giorno nel grande televisore che avevano in casa.

In un mattino di pioggia estiva, il signor T mi accolse in casa gridando parole che più o meno suonavano così: Se vuoi essere un uomo libero, devi fare quello che ti riesce bene. Rimanendo nel tuo campo.
La verità, mi dicevo dentro di me – mentre lui gridava quelle parole come un vecchio attore che calca la scena di casa sua in un teatro senza spettatori – è che quando ti arrangi svolgendo mille lavori non pagati o sottopagati fai fatica a ricordare a te stesso di essere capace in qualcosa che ha un campo di appartenenza.
Quell’anno avevo conseguito un diploma di Operatore Socio Assistenziale, conoscevo le basi del primo soccorso in caso di emergenza e me la cavavo bene in ogni faccenda domestica. Eppure, ogni giorno della mia vita, mi domandavo: servirà imparare (e vivere) tutto questo a uno che nella vita vuole solo diventare uno scrittore?
È servito fare quel lavoro. Lo comprendo, appièno, solo oggi.
Stare con gli altri, affondare corpo e anima nell’esperienza umana della convivenza con chi è meno fortunato di noi, è davvero utile a capire da dove veniamo e che strada intendiamo percorrere. E poi, a dirla tutta, quando vivi certe esperienze non fai che raccogliere storie e suggestioni tutto il tempo.
Forse, le storie che scrivo, vengono da gente come il signor T e la signora D. Per questo motivo, anni dopo quell’esperienza, mi dico che sarò sempre loro grato per il tempo trascorso assieme.

Ci sono cose che non appaiono

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Ci sono cose che non appaiono. Credo, perché potrei dimostrarvelo su una di quelle lavagne scolastiche abbastanza grandi da contenere qualche metro di formule algebriche, che esistono cose e immagini del quotidiano vivere che non appaiono agli occhi dell’individuo contemporaneo comune. Alcune volte le immagini*, (*quanto ci accade, ovvero i fatti allo stato puro) della vita quotidiana entrano nella letteratura come “filtrati” attraverso una lente. Facendo uno sforzo di comprensione potremmo chiamare linguaggio narrativo quella “lente” e “mondo esterno” i fattori ambientali che convergono sotto la lente.
Ci pensavo stamattina, quando dopo aver comprato una scatola di cerotti per medicare la pelle (quelli per curare l’anima non li hanno ancora brevettati, sic!) mi sono messo a pensare alla realtà quotidiana prepotente che ci avvolge e sconvolge ogni giorno. I fatti concreti della vita di costruiscono e decostruiscono in ogni istante. E noi, attori della vita, quando siamo fortunati possiamo fotografare quanto viviamo e provare – se siamo bravi – a raccontarlo agli altri.
Esistono tante vite a questo mondo. Niente di più vero. Però esistono ancora più storie che provano, a volte riuscendoci altre volte fallendo, quella che chiamiamo vita reale. Non ho una cassetta degli attrezzi dotata di strumenti magici, e non sono un bravo meccanico capace di mettere a punto certe faccende complesse che ci travolgono in questa esistenza.
Per quanto mi riguarda, a 34 anni, faccio sempre più fatica a raccontare il mio vissuto. Perché in fondo, a dirla tutta, a molti le storie tristi non piacciono. Tanti sono quelli che cercano storie di successo o dal lieto fine perfetto come la forma di una merendina idrogenata.
Sono un diabetico della vita. I dolci (finali) fatti di successo mi fanno male.
Uno di voi mi ha scritto. Chiedeva le istruzioni per l’uso della vita. Non voleva sapere dove cercare il libro di Perec, ma capire come comportarsi in un momento difficile della sua vita.
Non ho saputo dargli una ricetta. Ho provato solo a dirgli “se vuoi davvero provare a resistere al caos di questa vita, cerca qualcosa in cui cimentarti”. Intendendo qualcosa di magnifico, potente ed esclusivo.
Ecco, detto questo spero di non ritrovarmi mai più a dover dispensare consigli. Né su questo blog, né di persona.
Io, i miei demoni interiori, un po’ li conosco. Per questa ragione non gioco mai a scacchi con loro: quando lo faccio, cosa rara, tendono a fottermi sempre. Barando in maniera triste, quasi grottesca.
E tutti i libri che leggiamo, servono a qualcosa in questa vita?- ha poi domandato l’amico che mi ha scritto.
Certo. Servono. A non morire sotto un temporale di arachidi unte che abitano, spesso, i meandri della nostra mente.
Pensando a Carmelo Bene, mi viene da dire – tenendo gli occhi che mirano in basso e con la faccia rossa per la vergogna- quanto segue: se è vero che il linguaggio ci “trapassa” e non ce ne accorgiamo, i fatti della vita reale con la stessa forza s’insinua dentro di noi privandoci di ogni forza. Con moti, e momenti, diversi in ogni occasione.
Per questa ragione, certi giorni, cerco una panchina isolata e mi siedo a piangere da solo. Ora credo di aver scritto e detto molto, troppo. Perdonatemi se vi ho rubato tempo. In momenti come questo, citando il James economista, mi lascio travolgere da quello che lui chiamava “il senso pungente della realtà”. E poi, a essere sinceri per davvero, per ritrovarlo quel senso mi metto a scrivere in maniera disordinata. Appunti sporchi, come questi che avete letto fin qui.

Come scrivere…

Questo ruscello scorre vicino la casa in cui sono cresciuto...e che oggi non c'è più. Ci andavo spesso d'estate. Pur non trovandovi mai forme di vita diverse dai girini ero sempre felice di starmene lì a toccare l'acqua e a giocare con i sassi.

…scrivere con le mani sporche, col terreno nero sotto le unghie, con il sangue sulle labbra spaccate, con gli occhi stanchi e pieni di lacrime, scrivere per mettere punti e virgole e spazi e leggere scie e percorsi in quegli spazi a volte vuoti da morire in un rumore bianco non udibile a volte così pieni da strabordare come un fossato affogato d’acqua dopo il temporale. scrivere provando tutto questo e facendolo provare a chi ti legge. altrimenti, che diavolo si scrive a fare?

Mario Schiavone

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