4 domande (più una) a Paolo Piccirillo

Paolo Piccirillo, autore di Zoo Col Semaforo
Paolo Piccirillo, autore di Zoo Col Semaforo (Nutrimenti)

“Se una storia non graffia, non è una storia” (Paolo Piccirillo*)

Hai pubblicato per Nutrimenti un libro molto intenso: “Zoo Col semaforo”. Ricordo bene quel periodo… ovunque si parlava di te come un giovane scrittore, dotato di talento e capace di ben altro. A quel punto, invece di fare la star nei salotti letterari, hai tutelato la tua vita privata. Scelta intelligente e sana. Ti andrebbe di dirci dove sei stato e cosa hai combinato in questa lunga pausa?

Diciamo che nessuno mi ha offerto un salotto romano. O un divano su cui stare, senza la richiesta di un affitto mensile; altrimenti avrei fatto volentieri la star! A parte le battute, per rispondere a questa domanda devo fare una premessa: io non sono una persona dotata di un’intelligenza razionale, che si sviluppa attraverso sillogismi e conseguenze, tipico appunto delle intelligenze vive. Tutt’altro. Ragiono in base a sensazioni soggettive e illogiche. Il punto è che mi fido molto di più delle mie sensazioni che del raziocinio o di ciò che mi sembra più ragionevole, perché le sensazioni spesso racchiudono quelle esigenze istintive; è ciò che io cerco. Per essere pratici: dopo “Zoo col semaforo”, il mio primo romanzo, avevo l’opportunità di frequentare – perché ammesso dopo le selezioni – il corso di sceneggiatura del centro sperimentale  di cinematografia di Roma, da sempre il mio sogno. Rifiutai, perché non stavo più bene a Roma e perché sentivo la necessità – apparentemente immotivata – di andare in un posto dove la mia immaginazione si sentisse a casa, a suo agio; invece c’erano centouno motivi, ragionevoli, per cui rimanere a Roma a fare quello per cui continuo a studiare e a impegnarmi. Ho deciso così, in quel periodo, di andare in Spagna, tra Madrid e Ibiza, dove ho continuato a scrivere e a studiare sceneggiatura, e dove ho vissuto mondi molto lontani da me, conosciuto persone che sul mio cammino ordinario mai avrei incontrato. Ho dovuto relazionarmi con situazioni improbabili, ho fatto insomma quello che serve a uno scrittore e che faccio quando scrivo: ho vissuto gli altri lati della mia vita. A mio parere, per la mia crescita professionale, sono molto più utili di qualsiasi recensione positiva. Soprattutto per uno che è stato pubblicato a 23 anni. 

In tanti dicono di scrivere perché “amano la scrittura”. Frase che dice ben poco, a mio avviso. Tu perché scrivi certe storie capaci di graffiare la pelle viva?

Prima di tutto grazie per aver definito così le mie storie, capaci di graffiare. Se una storia non graffia, non è una storia. Io personalmente non credo di amare la mia scrittura. Io amo profondamente le mie storie, che è diverso. Amo il mestiere dello scrivere, perché quando lo metto in atto mi rendo conto di possedere una fortuna enorme, che è quella di entrare all’improvviso nella vita dell’uomo bloccato nel traffico o della donna che attraversa la strada; perfetti sconosciuti che, nel migliore dei casi, proveranno delle emozioni grazie a me. Questa è una magia che la vita quotidiana non prevede. Mi piace entrare sotto la pelle di tante persone contemporaneamente, mi piace perché è un modo per fregare la matematica casualità del mondo; il teorema per cui posso incontrare solo chi è (quasi) come me, e solo uno per volta. In questo il mondo reale è riduttivo, e non mi accontento.

Diceva qualcuno che si arriva alla scrittura sincera dopo tanto dolore e rabbia, raramente perché il mondo è bello. Che cosa provi quando scrivi?

Quando scrivo, o quando penso alle mie storie, non sono né allegro né triste, non soffro né gioisco. Sono molto neutro. Piuttosto ci sono due elementi che convivono in me quando scrivo: la curiosità e la frustrazione. La frustrazione è il vero motore che mi fa arrivare a scrivere appunto. Io ho bisogno di pensare che non sono in grado di fare qualcosa, per poi farla; spesso, quando penso a una storia, penso anche, e lo faccio apposta, che non sarò in grado di scriverla. “Troppo difficile, non è cosa”, mi dico. E se dopo una settimana continuo a pensarlo, a frustrarmi, allora vuol dire che è la storia giusta. E poi c’è la curiosità di vedere che ne verrà fuori da quel documento word che provo a sporcare. La curiosità di vedere che forma assumeranno tutte quelle cose confuse che penso quando metto insieme facce, ricordi e ricordi mai esistiti. Riguardo al mondo, che non si scrive perché il mondo è bello, sono d’accordo. Io credo che chiunque prenda in mano carta e penna lo faccia perché vive nell’illusione di pensare che quella frase, quella parola che renderà il mondo un po’ più bello, verrà fuori proprio dalle sue mani. È un’illusione fondamentale questa per scrivere.

Che ne pensi di questa Campania, terra difficile ma bella, dopo tutto quello che hanno detto e scritto (sul casertano in particolare) altre voci in ogni angolo del pianeta?

Quando ultimamente ho vissuto in Spagna, mi sono reso conto di una cosa: quando sentivo la mancanza dell’Italia, sentivo la mancanza di Roma, non del mio paese d’origine, Santa Maria Capua Vetere o del casertano in generale. Allora mi sono posto delle domande e sono arrivato alla conclusione che la mia terra non mi è mai entrata nel cuore, nonostante i tanti anni vissuti lì, nonostante la nostalgia che a volte ho per amici o parenti, per quel senso dell’umorismo unico al mondo, o per il caffè (il caffè, che può sembrare una cosa da poco, ma qualsiasi campano che ha vissuto o vive all’estero sa di cosa sto parlando!). La mancanza però è un’altra cosa, si riferisce a qualcosa che avevi e che all’improvviso non hai più. Ecco, purtroppo, ed è molto triste dirlo, il casertano non mi ha mai dato nulla per cui provare mancanza. E non è perché c’è la camorra o perché esteticamente è una brutta zona. Io noto che la nostra è una terra che non offre motivi per cui fidarsi di essa. È una terra, il casertano, che non è casa. Però questo è un pensiero mio, e per altro anche inutile, perché al problema che ho appena sollevato  non riesco a trovare una soluzione, una soluzione pratica; nella teoria ne ho molte. Ma è teoria, purtroppo.

Parlaci, se puoi, di un oggetto della tua infanzia che ti rappresenta.

A me viene in mente solo il pallone. Da piccolo non guardavo i cartoni animati, non ho mai avuto un soldatino (credo che mia mamma avesse l’ossessione che potessi ingoiarli, o qualcosa del genere). Appartengo a quella generazione, credo l’ultima, che ha avuto la fortuna di un’infanzia senza videogiochi. Ma soprattutto abitavo in un parco residenziale. Passavo tutta la mia vita giù a giocare a calcio. Davvero, dalla mattina alla sera, escluse le ore di prigionia a scuola. Il supersantos arancione, precisamente, rappresenta appieno la mia infanzia. Anche perché ero il più piccolo, quindi mi mettevano sempre in porta, e per dimostrare che ero bravo, ma soprattutto volenteroso, e magari sperare, un giorno, di giocare in mezzo, dovevo respingere quanti più supersantos era possibile. Mi ricordo che non perdevo mai di vista il pallone, durante le partite. Ho passato l’infanzia a illudermi che più il supersantos restava nel mio campo visivo, e più diminuivano le possibilità di ritrovarmelo poi alle mie spalle, in rete, che mi facessero gol insomma. Più lo guardavo e più pensavo che mi appartenesse. Mi sbagliavo di grosso.  

 *Paolo Piccirillo (1987) è nato a Santa Maria Capua Vetere (CE). Vive e lavora a Roma. Dopo aver pubblicato “Zoo col semaforo” (Nutrimenti 2010) è stato scelto per la lista dei 50 scrittori italiani under 40 più promettenti, stilata dal quotidiano  Il Sole24Ore. Il suo ultimo libro, in uscita per Neri Pozza, è “La terra del sacerdote”.

  © Mario Schiavone, per Inkistolio: Storie Orticanti.  RIPRODUZIONE TESTI RISERVATA.

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