Undici solitudini – Richard Yates. Pagine 257. Minimum Fax 2006.
Recensione di Ilaria Scarpiello.
“Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.”
La solitudine, fedele compagna dell’uomo cosiddetto moderno, non va ignorata, va raccontata. La solitudine va cantata, descritta, la sua esistenza va diffusa, non nascosta sotto il tappeto come spazzatura. Solo in questo modo si ha la possibilità di sentirsi meno soli, almeno per un po’. Richard Yates, burbero cantore di storie dirette come pugni allo stomaco, ne racconta undici nella raccolta di racconti “Undici solitudini”, riedita da Minimum Fax nel 2006. Racconti che descrivono le vite piene di solitudine di persone “normali”, maestre e tassisti newyorkesi, segretarie e aspiranti scrittori di Manhattan e Brooklyn, che sognano il successo, l’ambito sogno americano degli anni sessanta, le possibilità e le occasioni promesse a tutti e che faticano a palesarsi. I personaggi di Yates, in fondo, sembrano intuire che non tutte le storie hanno un lieto fine, ma sembrano scacciare via questo orrendo pensiero dalla testa come si fa con una mosca troppo insistente e fastidiosa. Come fare a sopportare tutta questa immeritata solitudine, allora? Proiettandola sugli altri, su chi ci sta intorno, ovviamente, una difesa psicologica che raramente fallisce, ma che rende incompleti e nevrotici. I protagonisti di questa raccolta di racconti di Yates sono cattivi, tristi come chiunque non si mette mai in discussione, come chi pensa di essere sempre dalla parte della ragione, di non avere mai torto. Ai vessati restano solo gesti di rabbia, episodi di vacua violenza, che lasciano stremati e vuoti e incompresi. “Undici solitudini” è un capolavoro, uno specchio in cui rifletterci e vergognarci, perché abbiamo sempre qualche motivo per cui vergognarci. “Undici solitudini” mostra in tutta la sua potenza le capacità di un autore, Richard Yates, che ha contribuito in prima persona alla grandezza della narrativa americana del secondo Novecento.
Le vite impossibili di Greta Wells – Andrew Sean Greer.pagine 292.Bompiani 2013.
Recensione di Ilaria Scarpiello.
“Una volta nella vita, l’impensabile capita a tutti.”
È un rigido inverno newyorkese del 1985 quando Greta Wells, trentunenne sofferente reduce da un grave lutto e un amore esaurito, si ritrova a viaggiare nel tempo come effetto collaterale di una terapia ciclica di elettroshock. Greta, ogniqualvolta subisce il trattamento elettroconvulsivante, viene catapultata nei panni delle sue vite precedenti, o parallele, del 1918 e del 1941. Donne temporalmente lontane e differenti da lei, certo, ma con affinità profonde legate alle tensioni familiari e alle scelte difficili da compiere. Greta Wells sarà chiamata ad affrontare perdite e occasioni offerte dal destino anche in epoche diverse dalla sua, cercando di aiutare le altre sé stessa a uscire vittoriose da questa gara senza tempo che è la vita, scoprendo nuove ed inaspettate sfaccettature del suo essere.
“Quando era bambina, signora, era questa la donna che lei sognava di diventare?”
“Le vite impossibili di Greta Wells” è il nuovo romanzo di Andrew Sean Greer (Bompiani, 2013), indimenticabile autore de “La storia di un matrimonio” e “Le confessioni di Max Tivoli”, una storia accattivante, costruita bene e con una scrittura potente, ma che, rispetto ai lavori precedenti, sembra carente di quella magica polvere di stelle capace di catapultarti là dove l’autore vuole, dietro le spalle dei protagonisti, ad osservare con loro quello che accade fuori da una finestra o dentro una stanza. Greta Wells non riesce a renderti appetibile nemmeno una delle sue tre vite, come protagonista trae energia vitale da quelli che sono i personaggi più interessanti, ovvero i secondari come il gemello Felix, la zia Ruth, Nathan e la signora Green. Greta sembra sempre sul punto di decollare fra le pagine, come nelle sue vite, ma non lo fa mai, nemmeno nel finale, forse un giusto avvertimento sulla realtà del nostro quotidiano che però stona con la trama fiabesca del romanzo. Siamo lettori, pretendiamo la magia se ci viene promessa.
“Ho paura di rimetterci il setto nasale in questi incontri dilettantistici. Ho un naso perfetto. Sono una ragazza con il naso perfetto…”
Sudore. Le gocce di sudore mi scendono copiosamente giù per il viso. Le sento addensarsi abbondanti alla base del collo. Scivolare nell’incavo dei seni. Percorrere tutta la linea della schiena, deformarsi sulle rotondità dei muscoli per poi venire assorbite dall’orlo della stoffa che ricopre l’elastico che mi tiene su i pantaloncini della Leone. Ancora mi stupisco di come riesca a sudare così tanto quando sono su un ring. Per fortuna il trillo che annuncia la fine della ripresa è arrivato al momento giusto, pochi altri secondi in più e sarei finita a tappeto di sicuro. Carlo mi guarda in cagnesco, ma tanto lo so il perchè. Faccio sempre gli stessi errori. Non riesco a rimanere in linea. Saltello troppo sulle punte. E il mio gancio destro è ‘na ciavattata. Lenta, sono troppo lenta.
Mi siedo sullo sgabello all’angolo. Mi tolgono il paradenti nero, mi fanno bere un sorso di acqua e sali minerali.
“Quante, quante dannate volte t’ho detto de sta’ in linea? Eh? Quante vorte?”
Carlo mi guarda negli occhi roteando con forza un asciugamano davanti alla mia faccia. Mi parla con un tono di voce tanto incazzato quanto preoccupato.
“Sai che ti dico? So’ contento che stai a pijà tutti sti’ cazzotti! Ma perchè non mi ascolti? Ma che ho fatto di male io pe’ meritamme tutto questo?”
Vorrei chiedergli scusa, gli vorrei dire che ho paura. Ho paura che mi spacchi il naso. Ho paura di rimetterci il setto nasale in questi incontri dilettantistici. Ho un naso perfetto. Sono una ragazza con il naso perfetto. Non riesco a dirgli nulla però. Non riesco a parlare, mi viene da vomitare. Spesso mi viene da vomitare per colpa della stanchezza, dello sforzo fisico. Stavolta credo sia anche colpa del diretto destro che mi è arrivato direttamente sulla bocca dello stomaco. Per una frazione di secondo mi è mancata l’aria. Sono entrata in debito di ossigeno. Ho strabuzzato gli occhi e poco dopo è scoppiato il dolore. Una volta ripreso a respirare i miei nocicettori hanno fatto il loro dovere e l’adrenalina mi ha permesso di reagire al colpo.
“Adesso concentrati. Concentrati su chi ti sta davanti. Studiala! Hai capito i suoi punti deboli no? Che aspetti? Te devi…”
Non lo sento più. Non capisce che sono già cotta. Siamo alla seconda ripresa e già non ce la faccio più. I tre minuti più lunghi della mia vita in assoluto. Il concetto di tempo perde definizione, perde consistenza. Sono così in affanno che ad ogni respiro il petto mi si allarga a dismisura. Sento un formicolio proprio sotto l’occhio sinistro, lo so che i lividi stanno incominciando a gonfiarsi. Stasera, dopo la doccia, rimarrò come al solito mezz’ora davanti allo specchio dello spogliatoio a guardarmi il viso. Come al solito mi guarderò con i capelli ancora bagnati e non mi riconoscerò.
Il trillo del contaminuti. Terza ripresa.
Giriamo in tondo e ci guardiamo negli occhi. Non avrà trent’anni, proprio come me. Poco più alta di me, questa cosa mi porta a dover giocare con la mia bassa statura cercando di entrarle il più possibile vicina al busto. Altrimenti lei potrebbe sfruttare la distanza avendo le braccia più lunghe. Bionda, capelli non troppo lunghi, li ha legati in una treccia imperfetta. Una bella ragazza, in situazioni normali. Sembra affaticata anche lei. Mi viene da sorridere pensando che molto probabilmente sul peso abbiamo barato tutte e due.
Ho tutti i muscoli del corpo in tensione. Sento pulsare i quadricipiti, tirare gli addominali, scoppiettare il gran dorsale, affilare le unghie i bicipiti. Le pupille passano da uno stato di fissità ad uno di estrema velocità, a seconda dei movimenti della mia avversaria. La guardo attraverso i guantoni, assaporando il gusto salato del sudore che mi finisce in bocca. Mi aiuta fantasticare che anche lei abbia paura di me. Mi sento carica, è ora di attaccare.
Mi avvicino rapidamente, sferro un sinistro e poi ancora un diretto sinistro. I pugni diretti confondono l’avversario, gli danno fastidio, così mi ha sempre detto Carlo. Mi sposto velocemente sulla destra facendo perno sul piede. Ed è a questo punto che, abbassandomi, affondo il destro all’altezza dello stomaco. Stessa moneta, ti ripago con la stessa moneta. Ritorno subito in guardia. Ha accusato i colpi, è leggermente ripiegata in avanti. Notevolmente sbilanciata. Decido di approfittarne, mi preparo. Non appena mostro l’intenzione di attaccare ancora vengo vistosamente fermata dall’arbitro. Non mi sono accorta che le esce sangue da un sopracciglio. Devo averle procurato un taglio con il secondo diretto sinistro. Devono sospendere l’incontro. La ragazza bionda protesta, interviene anche il suo allenatore, ma non c’è niente da fare. L’incontro è finito. Questo vuol dire che ho vinto.
Mi giro verso il mio angolo di ring. Nascosto dalle corde tese, Carlo batte le mani. E ride.
Adoro il pugilato.
Rido anche io, mentre mi metto addosso l’accappatoio e mi avvio verso gli spogliatoi.
“Terza ripresa”.Un racconto di Ilaria Scarpiello* pubblicato per gentile concessione dell’autrice.
Ilaria Scarpiello*.Psicologa, è nata a Foggia nel 1981, ma vive a Roma. Entrata nel 2000 nella cinquina del Campiello Giovani, ha esordito con questo notevole libro:
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.