…scrivere con le mani sporche, col terreno nero sotto le unghie, con il sangue sulle labbra spaccate, con gli occhi stanchi e pieni di lacrime, scrivere per mettere punti e virgole e spazi e leggere scie e percorsi in quegli spazi a volte vuoti da morire in un rumore bianco non udibile a volte così pieni da strabordare come un fossato affogato d’acqua dopo il temporale. scrivere provando tutto questo e facendolo provare a chi ti legge. altrimenti, che diavolo si scrive a fare?
Quando sognavo Dorothy Parker che ascoltava Alanis Morrisette.
Questa volta non parlerò di un telefilm, di un libro o di una canzone, ma di un periodo preciso e speciale, una vera e propria era: gli anni ’90. Sono tante le citazioni, i riferimenti, le musiche, gli stimoli di quegli anni. Al contrario di quanto accade oggi: gli impulsi più intensi arrivano dagli smartphone, quando è solo la vibrazione di chiamata…
Negli anni ’90 io ero adolescente e dopo aver vissuto l’inferno quotidiano del liceo, tornavo a casa per consolarmi guardando MTV; una rete che all’epoca trasmetteva quei brani che hanno fatto la storia della musica della mia generazione. Mi avvolgevo nel mio camicione grunge ascoltando di volta in volta le note di quelle canzoni che, a mia insaputa, avrebbero fatto storia. Attendevo con ansia il sabato, perché alle ore 14 sulla rete televisiva TMC2, passavano un programma chiamato Sgrang. Un vero e proprio contenitore di musica heavy metal, rock, hard rock, grunge davanti al quale potevo lasciarmi trasportare da assoli di chitarre elettriche e voci rauche di capelloni. La cosa davvero strabiliante di quei momenti è che Sgrang lo guardavo con mia madre.
Lei è per me il sole da cui si sono irradiati tutti quegli stimoli culturali che trovavo affascinanti e forti perché in opposizione alla banalità e piattezza dei miei coetanei e della realtà che mi circondava.
La voce di Tori Amos mi conduceva in luoghi lontani e surreali, dove le ragazze cornflake erano finalmente giudicate ragazze puritane e banali, mentre le raisin girls, erano apprezzate, danzando sui tasti bianchi e neri senza essere giudicate. I suoi brani erano intrisi di tristezza, e raccontavano di un padre reverendo e uno stupro da dover dimenticare. I suoi testi narravano del mondo femminile e di una ribellione indispensabile per essere liberi.
Una rivoluzione di cui cantava anche Tracy Chapman, che mia madre ascoltava di continuo da quando ero molto piccola. Chapman con la sua voce scura in gola e la rasta in testa, sussurrava di una rivoluzione che sarebbe arrivata: “Non lo sai, stai parlando di una rivoluzione, Risuona come un sussurro, Mentre fanno la coda per il sussidio, Piangendo alla porta di quegli eserciti della salvezza, Sprecando tempo in coda agli uffici di collocamento, Restando seduti in attesa di una promozione, I poveri insorgeranno, e si prenderanno la loro parte, Non lo sai, faresti meglio a correre, Perché finalmente le cose stanno iniziando a cambiare, parlando di rivoluzione, Talkin’ bout a revolution”.
Lo stesso senso di ribellione che ritrovavo anche in due eroine dei cartoni animati: Daria e Lisa Simpson. Lisa per la sua intelligenza repressa in un mondo stupido e superficiale e Daria, per il suo sarcasmo coma arma di difesa in “questo triste mondo malato”.
Ancora su Mtv seguivo un telefilm che si chiamava Popular e raccontava di una guerra liceale tra bionde e brune, dove le bionde erano le belle e perfide adolescenti mentre le brune erano le sfigate, intelligenti che sfoggiavano originali outfit e magliette di Emily The Strange, aspettando solo la rivincita all’università. Io parteggiavo per le brune.
In quegli anni altra vera rivelazione fu la canzone che faceva da sigla al telefilm prima citato, Supermodels di Kendall Payne che con i suoi capelli corti e colorati, gridava un nuovo slogan: “Odiamo le supermodelle, non c’è nulla di personale, è solo che siamo stanche del confronto”. Ecco qualcuno che gridava i miei pensieri che avevano vita nella mia testa e poi sulla carta dei miei diari: “Cosa è causa delle tue lacrime… combattere per una taglia? Pensaci su un paio di volte, cosa dura di più in questa vita, la personalità o cosce sode? Credi che la bellezza sia in quello che vedi? Allora se pensi questo sei stata ingannata!”.
In quegli anni pensavo seriamente che Sylvia Plath avrebbe potuto apprezzare quel pezzo, che forse avrebbe citato quella canzone nei suoi diari che avevo divorato e amato alla follia. Anche io mi sentivo sotto una campana di vetro. Purtroppo, col tempo, notavo che molti scrittori, pittori, cantanti, artisti che ammiravo erano morti suicidi, e questo fu tutt’altro che incoraggiante per la mia formazione culturale!
La follia vissuta da alcuni di loro mi fece scoprire grandi donne che avevano fatto la storia della letteratura; donne come la stramba Emily Dickinson e la bipolare Virginia Woolf. Quest’ultima in Una stanza tutta per sé, mi aveva fatto adorare ancora di più quel mondo femminile letterario popolato da donne che avevano vissuto, nonostante il loro talento, nell’ombra. Mi interessai alla formazione artistica delle scrittrici più difficili d’animo dei secoli precedenti. Leggendo tutte quelle pagine così evocative perché composte da parole forti e vissute, nate da una forma di repressione che trovava sfogo nella scrittura in prosa e nell’espressione poetica. Un gesto, quello del ribellarsi, che necessitava di mostrarsi anche esteticamente. L’idea mi venne quando arrivò sullo schermo un faccione riccio -forse la ragione del mio primo piercing ad anello al naso- di una donna fuori dal comune: Joan Osborne. Lei umanizzava nel testo di One of us – molto evocativo il video che mostrava un circo con freak e reietti – chi potesse essere Dio. Quell’idea che qualcuno potesse ipotizzare un Dio in carne (un perdente o uno strano su un autobus, come recita la canzone, che cercava la strada di casa) mi apriva a un mondo di riflessioni personali.
Voglia di ribellione che sfociava in un rock non elevato, ma leggero. In fondo un po’ di leggerezza ci voleva e chi meglio di Courtney Love (e della sua band), poteva rispecchiare quello stile? Cantando “vivi di nuovo, non lasciarti morire” io vedevo sullo schermo del televisore palme in fiamme e donne rock che mi mostravano come si poteva essere un po’ glamour.
Meredith Brooks però, mi riportò con i piedi per terra, quando con il suo rock cantava che odiava il mondo e con quello che sembrava un mantra “I’m, a bitch, I’m a lover, I’m a child, I’m a mother, I’m a sinner, I’m a saint, I do not feel ashamed, I’m your hell, I’m yor dream, I’m nothing in between, You know you wouldn’t want it any other way, quindi prendimi per quella che sono”. Le sue parole ben rappresentavano la complessità dell’essere donna, nei suoi molteplici ruoli. Ricordava agli uomini che se avessero smesso di cercare di capire, “limitandosi” ad amare e basta e ad essere forti, allora sarebbe stato tutto più facile.
D’un tratto però scorrevano immagini che mi turbavano, rimarcando che le vere riflessioni devono fondarsi su questioni sociali, e la voce straziante di Dolores O’Riordan dei The Cranberries gridava zombie, (“e i loro carri armati e le loro bombe, e le loro bombe e le loro pistole… piangono ancora nella tua testa”) mentre lei completamente dorata sulla pelle intimava a reagire.
Grazie però ad Alanis Morissette, capii che si poteva reagire e difendersi con un’arma potentissima: l’ironia. Mentre si contorceva in auto con i suoi lunghissimi capelli ricci, gridando dopo una serie di orrende coincidenze che possono capitare nella vita, “è ironico non credi?”, mi dissi che forse l’ironia mi avrebbe salvato da un mondo che non sentivo mio. Poco dopo in mio soccorso arrivò una donna fantastica, Dorothy Parker, che con i suoi occhi espressivi e buffi cappelli, la sua irriverenza e l’etichetta di “comunista”, notava come molti metodi di suicidio fossero sopravvalutati e quindi- come lei sosteneva- tanto valeva vivere. Si premurò in vita, di far scrivere come epitaffio “Scusate la polvere”. Mostrando così come l’ironia potesse funzionare anche da morti. Forse le sarebbe piaciuto ascoltare Ironic della Morissette, magari danzando sulle note di quella canzone.
Quella stessa ironia mi fece scoprire dei personaggi che nel fumetto e nel cinema aprirono ulteriori orizzonti:
Mafalda di Quino e Mercoledì della famiglia Addams.
Mercoledì nutriva il mio amore per il macabro, con i suoi vestiti neri e la bambola senza testa mostrava che lo stereotipo della Barbie e delle principesse poteva essere distrutto. E il fatto di avere una famiglia un po’ strana faceva sì che la mia apparisse un po’ più normale. Mafalda, nata molto prima, ma da me letta e riletta negli anni Novanta era invece quella bambina che più mi assomigliava, ricci ribelli, sensibilità verso le questioni sociali e ipercriticità verso il mondo. Tutte doti che non venivano sempre apprezzate.
Tutte queste donne, fatte di carne e carta, musica e scrittura, hanno influenzato il mio modo di essere e le ringrazio una ad una. Scusandomi con tutte quelle che non ho nominato in questo viaggio in rosa fatto a ritroso negli anni ’90.
“Il blues, prima ancora che un genere musicale, è uno stato dell’anima”(Max Pieri)
Chi siete, quanti siete, da dove venite? ( e quanti dei vostri strumenti musicali sareste disposti a cedere in cambio di un fiorino?)
Sono Max Pieri aka Rough Max, emigrante irregolare in direzione contraria: dal centro al sud Italia. Prima da Viterbo a Siracusa, poi a Caserta in due tempi, passando per Napoli e Perugia. Un testardo autodidatta della musica; che ha incontrato due giovani viandanti lungo la terra oggi- irrimediabilmente- riconosciuta non più felix. Michele Murante e Oscar Pisanti non sono certamente viaggiatori ordinari, hanno studiato a fondo i loro strumenti e sanno bene dove mettere le mani. Conoscono le carte nautiche, ma hanno accettato anche la sfida di dimenticarsele. Almeno per un po’. Hanno scelto d’imbarcarsi in un’avventura picaresca, insieme a un vecchio marinaio: attraversare la palude in fiamme, dove non servono mappe, ma è sufficiente guardare le stelle. Rough Combo è un’imbarcazione costruita per navigare in acque molto pericolose, oltre mille fiorini sono stati già spesi per costruirla e mi spiace: Non è in vendita. Il capitano ha deciso di affondare con tutta l’imbarcazione.
Il tocco musicale lo vedi nell’autodidatta testardo e capace come nell’allievo di conservatorio. Il primo però ha l’istinto e la voglia. In fondo, a pensarci bene, il blues nasce per strada. Mica nelle aule di conservatorio… pure se molti oggi passano da lì e poi approdano al blues”. Sono parole di un musicista blues italiano. Lui da anni ha appeso gli strumenti al chiodo per problemi familiari. Cosa aggiungeresti alla questione “blues che nasce in strada”, se ti chiedessi di parlarmi del tuo percorso personale come musicista?
Il blues, prima ancora che un genere musicale, è uno stato dell’anima. Al di la degli aspetti storico-sociali che l’hanno generato (e che ben poco appartengono alla nostra cultura), esiste un comune denominatore, indipendente dalle etnie, riguarda la capacità della specie umana di esprimere emozioni attraverso meta-linguaggi. Le arti grafiche, la scrittura e la musica sono piani superiori di comunicazione delle nostre suggestioni che non appartengono ad altri esseri viventi. Nella notte dei tempi, nel centro dell’Africa, dove è apparso per la prima volta l’Homo sapiens, il canto di una madre per il suo cucciolo è stato certamente il primo atto compiuto per salire su questi piani paralleli; l’uso di strumenti primitivi per accompagnare quel canto è stato il secondo. L’evoluzione ha fatto il resto. La storia ci ha consegnato le musiche popolari e accademiche in molteplici declinazioni; fino a originare meta linguaggi molto sofisticati, assecondando la sempre maggiore complessità della mente umana. Tuttavia, la mia esperienza di ruvido musicista è stata plasmata soprattutto in quei momenti in cui veniamo sopraffatti dall’urgenza di esprimere le nostre tensioni. Il tutto accadeva subendo una specie di sbandamento, un cortocircuito che annulla in un momento migliaia di anni della nostra evoluzione. All’improvviso senti proprio quell’istinto di scendere in strada, e ti basta un tocco abrasivo su accordi maggiori per esprimere tutta la felicità del mondo o su accordi minori per rappresentare una profonda tristezza.
Quando scrivi i pezzi, per non perdere suggestioni note e parole, cosa porti sempre con te?
Ora non porto più nulla. In passato avevo quasi un’attenzione maniacale per oggetti e strumenti utili ad intercettare persino le variazioni delle onde elettromagnetiche. Col tempo ho capito che se il tuo mondo interiore non è sintonizzato con quello esterno, puoi sbatterti quanto vuoi, non caverai un ragno dal buco. Se invece s’innesca con forza un canale di comunicazione, basta poco per decriptare la grande bellezza. Basta un telefonino per fare una foto, riprendere una scena, appuntarsi parole e rime o fischiettarci dentro una melodia.
Ti andrebbe di parlarmi del progetto musicale ultimo, ovvero quello legato al cd che avete appena lanciato?
Rough Combo ha avuto una lunga gestazione perché si tratta di un progetto non facile da mettere in pratica e che necessita di interpreti folli per essere realizzato. Suonare il blues in forma obliqua – senza strumenti armonici come chitarra o piano – è un vero e proprio salto nel vuoto, un contesto in cui eseguire anche solo un accordo necessita di istinto e coesione assoluta. Insomma ci vuole un gran coraggio e idee molto chiare perché le partiture restino in piedi sulla palafitta sax-basso-batteria. All’esordio non è stato facile, perché non eravamo agevolmente collocabili. Poi la realizzazione del cd ci ha consentito di essere meglio riconosciuti, sia dagli addetti ai lavori che dagli appassionati. In fondo “The basement tapes” è come un messaggio nella bottiglia, scritto in bella calligrafia, fatto apposta per esser lanciato il più lontano possibile, nel tempo e nello spazio. Un messaggio marziano per orecchie marziane.
Avete una pagina facebook, un sito internet, una mongolfiera pubblicitaria che vi sponsorizza o preferite solo il passaparola?
Abbiamo una pagina face book. Solo quella, nient’altro. In realtà il circuito dei concerti dal vivo che frequentiamo e la stessa rete internet sono talmente congestionati che il solo fatto di avere un cd con musica inedita ci lascia paradossalmente qualche chance in più di fronte ai tremendi segnali di crisi, non solo economica, ma soprattutto culturale. Siamo compressi, da una parte nella pletora delle cover band, dall’altra nella proliferazione assurda dei codici a barre anche sui “prodotti culturali”. Questo è anche il motivo del caos generale; la ragione per cui i frequentatori di club e sale da concerto, ma anche delle gallerie d’arte, dei cinema e delle librerie rimangano sempre più frastornati e confusi. Si ritrovano con sempre meno soldi in tasca e ancor meno strumenti oggettivi per riconoscersi in ciò che viene realizzato nelle arti.
Per te Max, la musica che produci cos’è di preciso: stimolo, passatempo, passione unica… o un modo per sbarcare il lunario in modo creativo, senza avvilirsi, quando le cose vanno storte?
Un po’ tutto quello che hai detto messo assieme. Questa è un’epoca in cui sono crollati tutti i principi. La religione, l’etica, la coesione sociale, lo sport, la politica (di sinistra e di destra), tutto ha mostrato inesorabilmente la corda. Non è rimasto più nulla di realmente liturgico. Persino l’amore si trasfigura in un afflato con la data di scadenza. Come in un nuovo medioevo la fiducia dell’uomo viene ignobilmente calpestata dalle menzogne. Soffriamo – con le dovute differenze – di quell’incertezza e assenza d’identità di cui soffrivano gli schiavi afro-americani e che, allo stesso modo, patiscono i migranti che affidano i loro destini a barconi sgangherati. Ecco quindi che raccontare storie semplici e dirette, cantare il blues senza sottacere nulla, resta uno strumento intimo per condurre una vita più consapevole e resistente, un metodo potente per recuperare quello di cui l’uomo ha veramente bisogno: qualcosa di sacro.
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