#Letture Estive 2016: American Dust di R. Brautigan

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American Dust- Prima che il vento si porti via tutto

Questo bel libro l’ho scoperto per caso, portandolo a casa dopo essermi innamorato del titolo, un pomeriggio d’estate in cui ero al paese natio di mia madre e mi trovavo nella piazza centrale di fronte alla chiesa. Mangiavo caramelle zuccherate per sentirmi meno solo e fissavo un uomo senza gambe che vendeva libri seduto dietro una grande bancarella.
«Venite, fermatevi. Comprate un libro oggi e sarete felice anche domani. »
Così diceva quell’uomo, ma la gente continuava a entrare in chiesa o a salire verso il corso del paese senza fermarsi. Tutte quelle persone non si fermavano neanche per notare che ad allestire tendone e bancarella ci pensava un polacco alto e muscoloso che per conto dell’uomo senza gambe guidava il furgone, disponeva i tavoli espositivi, tirava i libri dai cartoni e allargava l’ombrellone per dare ombra all’intero negozio ambulante. Il polacco faceva tutto quello che gli toccava fare senza capire una parola d’italiano. Lui e l’uomo senza gambe parlavano a gesti o in un inglese fatto di verbi all’infinito. Niente da fare, sono sempre lento nelle cose che faccio e dico, provo a perdermi per altre strade. Non fateci caso, lo faceva pure mio nonno: diceva sempre che tutti i fatti che raccontiamo noi umani sono come un pezzo di terra composto da tanti solchi: quando devi irrigare non sai mai da quale solco cominciare a gettare acqua.
Il romanzo di cui sto per parlarvi si apre con una frase che contiene la parola “pomeriggio” e conclude la riga di chiusura dell’intera storia con la parola “casa”. A dirla tutta, a girare poco intorno alle cose e a dirle come stanno senza pensarci due volte, questo libro può essere contenuto in queste due parole che profumano di famiglia e calore pure se il libro – a tenerlo troppo in mano dopo averlo letto– comincia a diventare freddo. Il volume di carta cambia la sua temperatura, e altro non può fare, in ragione del fatto che la vita e la morte s’incrociano in questo libro danzando prima a braccetto e poi scambiandosi un bacio amaro e distante come due amanti che diventano nemici. Che cosa significa tutto questo? Provo a spiegarmi meglio. Richard Brautigan in questo libro ha raccontato tutto quello che offriva quel buffo e incredibile Paese chiamato America concentrandolo in un solo ricordo d’infanzia. Se è vero che ci sono canzoni mal cantate, lettere da grafomani, baci da incapaci, magliette puzzolenti e bustine di pop corn troppo salato e poi ancora visioni di film porno troppo finti(rubati ai cugini più grandi) a ricordarci – una volta divenuti adulti- che l’infanzia non tornerà mai più; insomma se tutto questo è vero forse è ancor più vero che ci sono gesti isolati che finiscono nel buco nero della nostra infanzia e che finiamo per rimuovere dalla memoria come sabbia sollevata dal vento.
Per Richard Brautigan quella sabbia è rimasta lì sul terreno senza mai farsi prendere né dal vento né dal tempo. Granelli che pesano fino a schiacciare l’anima. Prova incontrovertibile di questo peso è l’estro narrativo con cui l’autore ha dato tutto se stesso scrivendo il suo ultimo libro, pur di cimentarsi in una storia che avrebbe potuto parlare di tante cose e invece non fa altro che dipingere, in appena un centinaio di pagine, un quadro in cui vediamo: il pomeriggio pensieroso di un bambino, e il campo di mele in cui si è consumato un dramma che pare davvero fermare il tempo.
Per il resto, di tutto quello che c’è nel libro: la seconda guerra mondiale appena finita, quei tipi che arrivano tutte le sere d’estate( e che dopo aver scaricato divano, tavolino e lampade sul ciglio di terreno che costeggia il corso d’acqua si mettono a pescare), i bambini che vendono vuoti di bottiglie per ricavare soldi con cui comprare hamburger … Di tutto questo potete fare a meno. Perché, per me che ho letto questo libro quasi dieci anni fa, vi garantisco che la vostra memoria, col tempo, farà a meno di tutte queste deliziose immagini. Si legherà, come si legano i nostri ricordi a qualcosa che ci lascia sempre a bocca aperta o a cuor vibrante-accelerato, a un’immagine eterna che vede un bambino solitario capace di desiderare non un hamburger ma una scatola di proiettili prima. E di desiderare, dopo che il vento si è portato via tutto, che ognuno di quei proiettili tornasse di nuovo nella sua scatola. Com’è che diceva il vecchio senza gambe che vendeva libri assieme al polacco?
«Venite, fermatevi. Comprate un libro oggi e sarete felice anche domani. »
Ecco, qui e ora e prima che il vento si porti via tutto, a me vien da pensare:
Andate. Fermatevi in una libreria di altri tempi e comprate questo libro di Brautigan, oggi. Dopo averlo letto sarete felici non solo domani, ma dopodomani e dopodomani ancora. Perché la buona letteratura non se la porta via neanche il vento.

American Dust- Prima che il vento si porti via tutto
(di Richard Brautigan, Isbn Editore, lo trovate in biblioteca o nelle migliori librerie indipendenti che vendono remainders).

10 domande impossibili a Natalino Russo, speleologo e scrittore.

Il respiro delle Grotte di Natalino Russo

“…è proprio dai sogni che ha preso forma il mio lavoro. Da bambino sognavo spesso di partire, e poi, già più grandicello, ai tempi dell’università studiavo solo ciò che mi consentiva di viaggiare o prometteva di portarmi lontano.”

(Natalino Russo*)

 

1)Reporter ed esploratore. Forse anche un po’ filosofo. Quanto fa bene all’anima (tua e di chi ti legge) la tua voglia di ricercare e raccontare?

A quella di chi mi legge non lo so, ma all’animaccia mia fa molto bene. Il racconto è uno strumento sottile, preciso, tagliente; è già di per sé una ricerca. Cerco di usarlo nelle sue diverse forme, dalla fotografia alla parola scritta a quella parlata. Vado in giro per ritagliarmi pagine bianche, che poi riempio di appunti, disegni, storie. Raccontare è condividere: cosa ne sarebbe di noi se non condividessimo ciò che siamo?

2)Osservando da vicino il tuo lavoro da speleologo, viene da pensare (anche stupidamente, se vogliamo): ma chi diavolo te lo fa fare di andare fin lì sotto a scovare segreti che il resto del mondo pare ignorare volentieri?

Là sotto ci sono due cose preziose: l’ignoto e la frontiera. Innanzitutto le grotte custodiscono gli ultimi posti inesplorati del pianeta. Sotto le montagne, l’occhio dei satelliti non arriva: per scoprire posti nuovi bisogna proprio andarci, come si faceva fino a un secolo fa mettendosi per mare verso orizzonti ignoti. In grotta l’esplorazione è ancora possibile. Esplorare il mondo sotterraneo significa metterci piede per la prima volta, illuminarlo, scrivere nuovi nomi sulle mappe, aggiungere pezzi alla geografia del noto. Tuttavia, dentro le montagne non ci sono mete da raggiungere, ma frontiere da superare. Il fondo di una grotta non è il punto più lontano raggiungibile, bensì quello più lontano raggiunto fino a quel momento. Il fondo di una grotta esiste perché è stato raggiunto da qualcuno, che ha percorso per la prima volta la strada per arrivarci; per gli esploratori successivi, quel fondo non è una meta bensì un punto di partenza: non arrivano fin lì per dire «Ci sono stato», ma da lì partono per esplorare ancora. Eccola, la frontiera di cui ti parlavo poc’anzi. È una frontiera da immaginare, per citare un bel libro di Andrea Gobetti (da poco ristampato, ndr). L’ignoto e la frontiera nutrono la fantasia di molti speleologi e alimentano buona parte della letteratura di viaggio e di avventura, anche fuori dalle grotte.

3)Esplorare fa rima con raccontare. A te riescono bene entrambe le cose. Come e quando hai capito che potevi fare il lavoro di reporter?

Nell’adolescenza, credo. La passione per il viaggio l’ho ereditata dai miei genitori: dopo alcune estati al mare, comprarono un vecchio Fiat Ducato e lo trasformarono in una specie di camper. Lo chiamavamo semplicemente «Il Furgone». A bordo del Furgone abbiamo girato l’Europa in lungo e in largo, senza prenotare nulla, dormendo dove capitava. Almeno per dieci anni, per dieci estati di seguito. Quei viaggi hanno segnato profondamente la mia adolescenza. Li custodisco in buffi diari che predisponevo prima di partire: ogni volta confezionavo un quaderno di viaggiofatto di schede giornaliere che poi compilavo con tempi, distanze, costi. Ogni viaggio aveva un titolo, un sottotitolo e una specie dilogo. Quei quaderni sono zeppi di appunti, osservazioni sulla natura e sul paesaggio, scampoli di dialoghi e di incontri. Oggi scrivo storie di viaggio e compilo guide per viaggiatori. Tutto sommato non è tanto diverso dai giochi che facevo da ragazzo insieme a mio fratello Luigi. Che in questo momento è in sella alla sua bicicletta alla volta dell’Iran. In solitaria.

4)La tua scrittura è fatta di necessari confronti fra il mondo di superficie (giornalisti a caccia di notizie facili, gente spaventata dalle esplorazioni, etc.) e il mondo sotterraneo in cui trovi spunti per le tue riflessioni narrative ed esistenziali.  Cosa manca a chi sta sempre in superficie; e cosa a chi sceglie le profondità terrestri?

A chi sta fuori, spesso manca proprio quella frontiera, cioè l’idea che ci sia un oltre. L’andar per grotte offre, per certi versi, un’occasione metaforica: quella di tracciare una via, piuttosto che limitarsi a seguire rotte predeterminate. Chi sceglie la profondità, invece, rimane senza sole. Però può ritrovarlo tornando all’esterno. Perché l’approdo ultimo dello speleologo è l’uscita.Come ogni viaggiatore, che può definirsi tale solo quando ritorna a casa.

5)Come fai a tornare nel caos umano dopo il silenzio che incontri quando sei nelle profondità terrestri?

Come ti dicevo, la vita è fuori. Mi piace quell’odore di vegetale, di foglie morte e di radici, che l’olfatto percepisce, fortissimo, al momento di uscire da una lunga permanenza sotterranea. Mi piace la gente, mi piace il mondo, mi piacciono le città affollate. Sono innamorato delle storie, e penso che persino i territori sperduti e inesplorati, che tanto mi attraggono, varrebbero ben poco se non ci si andasse insieme ad altre persone. Ogni storia, per essere interessante, deve essere condivisa. Anche i viaggi solitari, che pure frequento, hanno senso solo se vengono raccontati. Insomma: il silenzio delle grotte non è l’antitesi del caos esterno, bensì il suo complemento. Del resto anche l’aria delle grotte altro non è che una parte dell’atmosfera.

 

 

6)I libri di foto, si diceva un tempo, costano. Le immagini in rete a costo zero, oggi, son costate lo svilimento di una professione e la morte dell’editoria d’immagini. Cosa ne pensi di questa spinosa questione?

Sì, è una questione spinosa. Assistiamo a cambiamenti di enorme portata, e il punto è proprio che a questi cambiamenti assistiamo passivamente, non lideterminiamo attivamente. Semplificando un po’ il concetto, il passaggio dall’informazione verticale a quella orizzontale ci ha colti impreparati. La rete è l’evoluzione esponenziale della piazza: chi è più scaltro o strilla più forte ottiene maggiore attenzione. Questo è bellissimo e stimolante, ma noi siamo cresciuti in un mondo in cui la parola e l’immagine stampate avevano l’autorevolezza conferita loro dal processo stesso di pubblicazione. Con la rete non è più così, non sempre. Guarda il materiale che viene condiviso sui social network: bambini e gattini, orrori e bellezze, petizioni e proteste; c’è di tutto: da cause nobili ad abili strategie di marketing. Oppure le immagini non filtrate che arrivano dai luoghi di guerra. Diffondendole facciamo la cosa giusta oppure stiamo abboccando alla propaganda, magari della parte politica che pensiamo di contrastare? Ma vengo alla tua domanda: gli editori che utilizzano materiali che pescano in rete (gratis o a poco prezzo) trasformano i loro prodotti editoriali in qualcosa di simile a ciò che possiamo trovare in rete. Perché dovrei pagare per consumare qualcosa che posso trovare gratis altrove?Un editore deve saper offrire di più. Non ne è capace? Allora è bene che si estingua.

7)Domanda assurda, forse buffa… ma dovuta: nel mondo onirico sogni mai di fare il tuo lavoro? Cosa ricordi di quei sogni?

Sarà buffa, ma è una domanda azzeccata. Perché è proprio dai sogni che ha preso forma il mio lavoro. Da bambino sognavo spesso di partire, e poi, già più grandicello, ai tempi dell’università studiavo solo ciò che mi consentiva di viaggiare o prometteva di portarmi lontano. Oggi invece non sogno quasi mai il mio lavoro: mi basta farlo. Ma quando lo sogno, be’, sono quasi incubi. Perché il mondo è troppo grande e non basta una vita.

8)Ci racconteresti di una creatura vera o immaginaria che hai incontrato nelle tue esplorazioni?

L’ombra. Incontro spesso la mia ombra, che mi precede o mi segue, o mi cammina accanto.

9)Te la sentiresti di consigliarci almeno due libri (in alternativa un viaggio in un luogo) capaci di offrire scoperte uniche davvero?

Viaggi da consigliare? Quelli tematici, con gli occhi aperti, seguendo un filo conduttore, una traccia. La destinazione è del tutto secondaria: non è necessario andare lontano. Basta dotarsi di penna e taccuino, e guardare il mondo con curiosità.Le idee si estraggono da quella miniera che sono i libri: le storie, se ben raccontate, consentono di fare grandi scoperte. Tra i libri che ho amato di più, e che hanno cambiato il mio modo di guardarmi intorno, consiglio «La zattera di pietra» di Saramago e «Il barone rampante» di Calvino. Ma pure «La vita davanti a sé» di Romain Gary:si svolge in un solo quartiere, ma contiene un mondo. Anche la musica fa fare bei viaggi: consiglio la discografia di Daniele Sepe, tra cui la nuova edizione di «Viaggi fuori dai paraggi» (2013), con alcuni inediti. E poi il disco d’esordio di una bravissima cantante napoletana, la poliglotta Flo: «D’amore e di altre cose irreversibili» (AgualocaRecords, 2013).

10)Ediciclo editore ha pubblicato il tuo ultimo bel libro. Gesto coraggioso e sano, in tempi difficili per l’editoria. Vedremo in libreria altri testi tuoi per la collana “Piccola filosofia di viaggio”?

E chi lo sa.In questo periodo sto lavorando a diversi progetti. Vedremo.

Natalino Russo* è nato a Caserta, ma vive a Roma. È un riconosciuto speleologo e abile scrittore italiano. Per saperne di più sui suoi libri e sul suo lavoro ecco il suo blog personale: www.natalinorusso.it/web/it

Inedito Orticante: Intervista allo scrittore Domenico Dara.

Breve Trattato sulle coincidenze di Domenico Dara

 

“È vero, il manicomio, questo archivio della follia umana, è un generatore infinite di storie, in particolare di quelle storie che mi piace raccontare, storie estreme e fuori dall’ordinario

(Domenico Dara*)

Nel tuo bel libro d’esordio, pagina dopo pagina, affiora in superficie un senso di nostalgia per le vite degli altri.Vite non vissute, dal postino protagonista, ma osservate. Secondo te, quanto perdiamo di bello -in questa vita contemporanea liquida e veloce- delle vite di chi abbiamo attorno?
Diciamo che la nostalgia è una mia cifra stilistica e caratteriale imprescindibile. A volte il senso d’insoddisfazione che accompagna le nostre giornate è tale che per non lasciarci completamente andare avvertiamo la necessità di analizzarlo e comprenderlo, e quasi sempre questo tentativo di comprensione e chiarimento coincide con una rivisitazione della nostra vita passata alla ricerca del “nodo”, dell’attimo cioè in cui, col senno di poi, la vita ha preso una strada diversa da quella che avremmo voluto, o meglio, l’attimo in cui, a posteriori, una scelta diversa ci avrebbe portato vita piena di soddisfazioni. Tra i tanti brani sacrificati dal mio personale editing, ho escluso un brano a riguardo significativo, Anatomia della nostalgia, in cui il postino, con il suo consueto sguardo scientifico, cercava di analizzare e chiarire le cause di quel permanente stato d’animo. Io penso che noi siamo un conglomerato di possibilità, e che quella che viviamo è una delle tante vite possibili che potevamo essere. Lo pensa anche il postino, che però a differenza di molti ha il privilegio di scrutare nelle vite degli altri e in questo confronto diluire la propria nostalgia, perché a volte anche le molliche aiutano a sfamarsi. Durante uno dei suoi rari spostamenti, il postino un giorno si trova a Zurigo, di fronte a un enorme palazzone di periferia: “s’era messo a contarne i piani, le finestre, a calcolare gli appartamenti, le famiglie, le persone, e quando giungeva a un numero che gli sembrava il più realistico possibile, lo moltiplicava per tutti i palazzi che vedeva, e il totale era così alto che lo spaventava il pensiero di quanti uomini e donne fossero concentrati in uno spazio così limitato,quanti destini, quanti incontri possibili… Pensò che la nostra breve esistenza ci esclude dalla possibilità di migliaia di altre vite, pensò che se avesse potuto si sarebbe infilato in ognuno di quegli appartamenti e avrebbe vissuto la vita di ciascuno.Quante donne c’erano in un solo palazzo, e quante nel quartiere,nella città, nel mondo… e lui avrebbe voluto conoscerle tutte, lui, ch’era un uomo solo e negletto al mondo, avrebbe voluto avere un occhio in ogni casa e vederle vestire e uscire via, e poter poi frugare nel guardaroba e fantasticarne i segreti da una piega sul cuscino, dalle gocce d’acqua nella vasca da bagno, dalla sottana trasparente abbandonata sulla sedia”. Il postino è un uomo privilegiato anche perché vive un tempo rallentato e uno spazio limitato che può essere riempito dalla vita degli altri, a differenza della nostra frenesia che ci mette come una benda sugli occhi e non ci fa accorgere della vita che accade a pochi metri da noi. Il romanzo, in questo senso, può anche essere letto come un omaggio alla lentezza intesa anche come disponibilità.

Ho un amico in un paese cilentano. Tipo strano ma intelligente quanto il protagonista del tuo libro: non ricorda i nomi di tutti quelli che vivono in paese, anzi il più delle volte è schivo nei loro confronti. Eppure, osserva ogni vita e sa dire di quel giovane, quell’anziano o quell’adolescente di paese cosa compra al supermercato, che lavoro ha svolto o svolge e come passa il tempo in paese. Potremmo definirlo un silenzioso disegnatore di mappe quotidiane. Nella tua mente, per pensare-scrivere questo libro, quante mappe quotidiane di perfetti estranei hai immaginato negli anni?

È bella l’immagine della mappa quotidiana, usata più volte nel mio libro, e l’idea che sottintende di un percorso. Non è la cartina geografica col suo carico d’itinerari infiniti: la mappa disegna un percorso, uno solo, perché è vero che siamo un conglomerato di possibilità, ma solo all’origine, perché poi, ogni giorno, tracciamo un tratto della strada, e più tratti allineiamo più quella strada si definisce fino ad assumere i connotati della necessità. Il postino è cosciente della sua mappa quotidiana, tant’è che a volte si diverte a ridisegnarla, convinto che basti cambiare direzione di marcia per favorire l’apparizione di qualche miracolo.Non solo ho immaginato le mappe quotidiane dei miei personaggi, le ho perfino tracciate sul mio quaderno di appunti, perché quando scrivo sono come un viaggiatore in una terra sconosciuta e inesplorata, per muovermi ho bisogno di segni, di tracce, di sassolini…

 

La lingua di Girifalco, in molti tratti, contiene parole cilentane. Basta sfogliare un atlante linguistico e vengono fuori decine di parole in comune. Questioni di linguistica a parte, ti andrebbe di dirci perché non hai scritto questo libro in dialetto ma hai scelto una lingua ibrida fatta di incursioni dialettali brevi ma vive e guizzanti?
È una domanda interessante perché per la prima volta vengono mutati i termini della questione. Di solito mi chiedono perché non ho scritto il libro in italiano; la prospettiva della domanda invece è quella corretta, poiché l’intenzione iniziale era scrivere solo in dialetto e cioè nell’unica lingua capace di aderire come una pelle alla storia che raccontavo. Questo però avrebbe significato che il libro non sarebbe mai stato pubblicato, e soprattutto che avrebbe ristretto di molto la cerchia dei suoi lettori. Il compromesso linguistico, che però non nasceva ex novo ma rimandava a una consolidata tradizione letteraria, era quello di mescolare le due lingue sia a livello morfologico che sintattico, ricorrendo, con preciso intento di recupero, a calchi omerici e facendo cozzare linguaggio popolare e aulico. Ne è venuto fuori un bagaglio linguistico che non spetta a me dire se riuscito, ma che certo ha rappresentato per me il banco di prova più difficile.

 

Ho letto da qualche parte che stai scrivendo una storia ambientata sempre in Calabria. Narrazione in cui entra in gioco anche l’arrivo di un circo. Potresti dirci qualcosa in più di questa storia e quando sarà possibile leggerla?
Il titolo provvisorio è Dalla pietà celeste, un breve verso tratto dalla preghiera “Angelo mio che sei il mio custode”. L’ambientazione e il linguaggio rimangono immutati. La storia narra la vicenda polifonica di sei personaggi (un sarto donnaiolo, un piccolo orfano, una moglie sterile, un pazzo, un professore solitario, una donna abbandonata) che, colti in un momento di stallo della loro vita, troveranno una svolta in seguito all’arrivo in paese di un misterioso e angelico circo. In questo libro approfondisco un tema presente anche nel Breve trattato, quello dell’angelo custode, inteso laicamente come elemento corroborante nella definizione del destino di ogni uomo. Per quanto riguarda i tempi, non ho fretta. Certo, spero non ci vorranno gli anni dedicati al Breve trattato, ma non voglio che l’ansia della pubblicazione possa in qualche modo compromettere la scrittura del libro. È uno dei vantaggi di non dover campare con i propri libri: puoi curarli oltre modo.

 

Girifalco è in Calabria: una terra colma di fatti, personaggi e luoghi che meritano di essere raccontati. C’è anche un manicomio a Girifalco, luogo generatore di infinite storie. E ci sono personaggi incredibili portatori di storie infinite che solo in parte –perché profonde, complesse e affascinanti- hai narrato nel tuo libro appena uscito. La tua scrittura sembra formarsi, riga dopo riga, per sottrazione. Di tutta quella materia narrativa citata all’inizio della domanda, cosa scarti scrivendo? E cosa rimane dentro l’anima pur non prendendo vita sulla pagina?

È vero, il manicomio, questo archivio della follia umana, è un generatore infinite di storie, in particolare di quelle storie che mi piace raccontare, storie estreme e fuori dall’ordinario. In un passo del Breve trattato scrivo che l’elastico mostra la sua vera natura un attimo prima della rottura. Penso funzioni così anche con gli uomini: dimostrano la loro natura poco prima di cadere nel precipizio. Il manicomio è presente nel Breve trattato, lo sarà ancora di più nel prossimo libro, e certamente sarà il protagonista di una delle mie storie future. Pure avendo un solo protagonista, il Breve trattato è un romanzo corale nella misura, certo ambiziosa, in cui cerca di ricostruire una comunità. Una comunità anch’essa generatrice di storie infinite che devono necessariamente sottostare a un filtro selettivo, che agisce non solo sulla quantità dei personaggi ma anche sui particolari delle loro storie. La scrittura si modella per sottrazione, ma dopo che ha agito l’accumulazione: nella prima stesura si scrive tutto il possibile, quasi una sorta di scrittura automatica, e poi si sottrae tutto ciò che non è portatore di significato: ogni parola deve essere funzionale alla definizione del personaggio o dell’avvenimento, anche quella apparentemente giocosa e ornamentale serve in realtà a definire diversamente ciò che si sta narrando. Sottrarre facendo attenzione che tutto il materiale scartato venga in qualche modo contemplato ed evocato nella scrittura sopravvissuta, un po’ come i lineamenti paterni sopravvivono nel volto somigliante del figlio.

 

*Domenico Dara è uno scrittore italiano di origini calabresi. Vive e lavora in Lombardia. Per saperne di più sul suo ultimo libro ecco un link con libro e scheda biografica a cura dell’editore Nutrimenti: http://www.nutrimenti.net/libro.asp?lib=307

 

© Mario Schiavone 2014 per Inkistolio: Storie Orticanti. RIPRODUZIONE TESTI RISERVATA.

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