Le case dai tetti rossi di Alessandro Moscè – Fandango

Le case dai tetti rossi, l’ultimo romanzo di Alessandro Moscè pubblicato da Fandango, è il mosaico di un viandare in una soglia vicinissima eppure fantasmatica, sfuggente nel tempo d’oro dell’infanzia. È un percorso a ritroso in cui passo dopo passo mettere insieme le tessere per formare il puzzle; è un coro di voci che si alternano e ci raccontano di un mondo che non esiste più e che pure è stato vivo, vero davanti ai nostri occhi; è l’ex ospedale psichiatrico di Ancona, il quale dopo la legge Basaglia, come tanti, fu riconvertito. La ricostruzione umana, storica, letteraria di Alessandro Moscè è preziosa perché si alterna alla sua, di memoria (il pretesto è la vendita della casa dei nonni situata lì vicino). Il romanzo è inframmezzato dal tempo del ricordo, congelato, srotolato, rievocato come fosse un papiro che non deve andare perduto, mentre Moscè ricostruisce le storie del dottor Lazzari, di suor Germana, di Franca perseguitata dai nazisti, di Adele che ha fatto di Mussolini un mito-feticcio ossessivo, di Marta l’onicofaga, di Giordano pazzo per il Napoli, di Ligabù. Moscè ha modo di evocare tutta una sfera toponomastica e familiare volta a restituire l’immagine di una città interna ed esterna.

La sua panoramica è quasi cinematografica e ci si addentra nel manicomio come in un Maelstrom. Se ne esce con salti improvvisi come a concedere un respiro, una cesura, per tornare al tempo in cui quel mondo era visto con altri occhi: un magnete misterioso, affascinante perché proibito agli occhi di un bambino. L’indagine è chirurgica nel restituire i drammi e tutte le vicissitudini di “poveri cristi” ai quali ci si affeziona e alla fine quasi non si vorrebbe lasciarli andare. Questo di Moscè è quasi un romanzo-documentario: la penna si muove come una cinepresa che documenta per testimoniare, affinché le storie, semplicemente, non vadano perdute. Una scrittura-manifesto che non ha bisogno di fronzoli, che va dritta al punto e in cui il linguaggio è pienamente aderente alla materia, entra nei personaggi e li fa parlare con la loro lingua madre. La scrittura è pienamente consapevole, fluente e mai tortuosa, precisa nel nominare, nel ricostruire luoghi, storie. I personaggi vengono evocati in una serie di ritratti-drammi ricorsivi, seguendo la cronaca di come a poco a poco la psichiatria va a cambiare le norme e a sgretolare un mondo.

Le case dai tetti rossi è un romanzo curato come un giardino (non a caso le storie vengono recuperate grazie al diario di Arduino, giardiniere abilissimo, attraverso cui la voce narrante si nasconde), in cui niente è lasciato al caso, in cui è possibile entrare nei luoghi con grande facilità. La scrittura trasporta, guida con leggerezza in un mondo che leggero non è. Un romanzo fondato sulla pietas, in cui lo sguardo del narratore è sempre sincero nel restituire le singole sfaccettature di ogni singolo ospite del manicomio. Non è uno sguardo giudicante, ecco perché è un romanzo quasi d’inchiesta, un viaggio appassionato in un’Italia per molti sconosciuta, di cui forse qualcuno si vergogna ancora, ma che alla luce del presente è importante conoscere, capire. Un romanzo che ha della poesia soprattutto la suggestione di alcuni ambienti evocati e restituiti al lettore con il loro splendore e il loro squallore, la loro dignità e la loro fatiscenza. In questo paesaggio “i guardiani dell’ordine nel mondo degli esclusi, dei furiosi, degli imprevedibili” ci vengono incontro e ci sbattono in faccia tutto il loro vizio di brillare. Non si può non rimanerne ammaliati: ci si sente quasi loro confidenti, portatori di un’eredità fuori dalla storia, eppure carica di umanità, di ferocia, di gioia e di dolore. Lo sguardo di Alessandro Moscè illumina, è un occhio di bue che isola e rispetta, in cui anche l’io quando si racconta lo fa in maniera sempre calibrata, non invadente. Tutto sembra avere come fine quello di indagare un altrove di cui la soglia sembra proibita, apparentemente, ma che il testo restituisce.

Leggete questo romanzo, perché come scrive Daniele Mencarelli è “dalla chiarezza poetica disarmante”: ne vale davvero la pena. E l’augurio è che presto qualche regista se ne appassioni a tal punto da portarlo sul grande schermo. Sarebbe grandioso per uno dei libri più belli usciti quest’anno.

Lorenzo Pataro

Senza maschere sull’anima- Memoir

Comunicato Stampa

Il libro-intervista Senza maschere sull’anima – Gianluca Di Gennaro si racconta presentato alla libreria Quarto Stato di Aversa, domenica 17 dicembre

Invito-Presentazione-Libro-Riccio-DiGennaro (1)Domenica 17 dicembre 2017, alle ore 11, presso la libreria Quarto Stato di Aversa, si presenta il libro-intervista del giornalista Ignazio Riccio: Senza maschere sull’anima – Gianluca Di Gennaro si racconta. Partecipano all’evento, moderato dalla giornalista Anna Sgueglia, l’autore, l’attore Gianluca Di Gennaro e il magistrato Nicola Graziano.

Il libro

Il giornalista de Il Mattino Ignazio Riccio e il giovane attore napoletano Gianluca Di Gennaro si incontrano ai piedi del Vesuvio, per parlare di cinema e impegno sociale. Protagonista mai dimenticato di Certi bambini. Nipote di Nunzio, Gianfranco e Massimiliano Gallo, Gianluca ha bruciato le tappe, con una carriera artistica suggellata da successi cinematografici e televisivi.

Per l’interpretazione di Rosario, nella pellicola citata dei fratelli Frazzi, a soli dodici anni, riceverà diversi riconoscimenti, fra cui il Premio Flaiano. Qualche anno dopo diventa il pupillo dell’attrice e regista Valeria Golino, che lo vuole protagonista del suo primo cortometraggio, Armandino e il Madre. Prima, Gianluca prende parte a fiction di successo Rai e Mediaset come ‘O professore, con Sergio Castellitto, Come un delfino, con Raul Bova, L’oro di Scampia, con Beppe Fiorello, e alle fortunate serie tv Il clan dei camorristi e Gomorra.

Il tema sociale è una costante nelle storie che interpreta, e qui l’attore si racconta, mettendo in luce lo spaccato umano e sociale delle periferie della città partenopea. Partendo da Scampia, dove Gianluca è idolatrato da tanti giovani borderline, che vivono sul filo tra legalità e illegalità, l’attore racconta la propria esperienza a contatto con queste realtà difficili, e riflette sull’influenza che il cinema ha nelle scelte di vita di questi suoi coetanei.

Il sud e Napoli sono al centro dei suoi interessi, artistici e personali e Gianluca si mostra come un ragazzo che, pur non avendo vissuto la Napoli di Diego Maradona, Massimo Troisi e Pino Daniele, sogna di ripercorrere la stessa strada dei suoi idoli.

Il libro offre spunti di riflessione anche sul cinema italiano, che sta ritrovando nuova verve proprio grazie alla crescita di una generazione di giovani registi e attori di talento.

 

 

 

Ignazio Riccio (Caserta, 1970) è un giornalista che, da anni, ha collaborato e collabora con quotidiani e riviste nazionali, come Il Mattino di Napoli, Left e Pagina 99. Ha diretto il mensile di inchieste e approfondimenti Fresco di Stampa ed è responsabile della comunicazione per le case cinematografiche indipendenti Klanmovie Production e Resilienza Production.

 

Gianluca Di Gennaro (Napoli, 1990) è un attore italiano, che ha preso parte, nonostante la giovane età, a numerose produzioni cinematografiche e televisive nazionali e internazionali.  Ha lavorato con registi del calibro di: Mario Martone, Antonio e Andrea Frazzi, Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini, Claudio Giovannesi, Cosimo Alemà e Valeria Golino e con attori di successo come: Sergio Castellitto, Raul Bova, Beppe Fiorello, Stefano Accorsi e Alessandro Preziosi.

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