Lumache in guerra

casa rane

Stamattina sono uscito da casa per andare a trovare una persona speciale che non vedo da tempo. Andando alla fermata del T51, ho notato una venditrice ambulante ormai anziana. Dal viso al collo la pelle ricoperta di macchioline scure. In testa un caschetto di capelli bianchi, sottili e confusi. Mi hanno ricordato la matassa di fili di cotone bianco che da piccolo ho visto nel secchio di un amico di famiglia sarto. Anche i suoi abiti sembravano quelli di un sarto di paese: la sua camicia a rombi e la gonna a quadrettoni colorati, abbinati alle calze di spugna colorata abbassate fino alle caviglie, facevano sembrare quella donna una bambola fatta con pezze vecchie e bottoni colorati. Come quelle che faceva mia zia quando ero piccolo. In genere le bambole di pezza sono per le bambine ma io avevo una zia che creava bambole e pupazzi di pezza anche per me: me ne regalava tante ed io le conservavo tutte in una piccola valigia. Certe notti, negli ultimi anni, sogno di andare in giro con quella valigia a vendere bambole in grandi città popolate da creature strambe. Le raggiungo a bordo di una bici volante, come quella che usano i ragazzi amici di un famoso alieno in un film che ho visto sempre a pezzi e mai per intero.
Purtroppo, anche se volessi inventarmi un lavoro tanto incredibile quanto bizzarro, quella valigia non esiste più. Qualcuno- dopo la mia uscita di casa avvenuta quando avevo diciotto anni- ha pensato di gettare molti dei miei ricordi d’infanzia. Quando mi mancano certi ricordi, e ho bisogno di rivivere quei momenti per me cari, ripenso alle persone che non ci sono più. Ai momenti spensierati della mia infanzia che nessuno potrà mai restituirmi. Forse anche l’anziana signora di stamattina abita quei mondi che ho sognato negli ultimi tempi. Ogni sogno tante figure strambe che popolano sempre piccole città. Ogni piccola città tanti ricordi. Ad esempio, gli occhi scuri e vivaci della venditrice, quando cercavano di cogliere ogni movimento non mostravano mai irrequietezza. Pure una vecchina che faceva da sindaco in un paese di soli anziani, all’interno di uno dei miei sogni, muoveva gli occhi in quel modo. La donna di stamattina, essendo cresciuta in queste terre, se ne stava ferma sul marciapiede di via Diaz ad Aversa. Fra il supermercato e la banca, sotto un piccolo albero che le faceva un po’ d’ombra: alcuni passanti la vedevano, altri no. Se avessi fatto uno scatto fotografico, avrei chiamato quell’immagine con un titolo tipo: “Fantasma onirico con vero paesaggio urbano.”
La venditrice, pure se poco osservata, ha lanciato per tutto il tempo richiami in dialetto ai passanti. Cercava di cogliere la loro attenzione con gesti quasi teatrali. Non riuscendo a farsi notare dai tanti passanti ha subito infilato la mano sinistra in un secchio che portava appeso al braccio destro. Sulla bocca del secchio c’era uno straccio bianco usato come un morbido coperchio. Al centro dello straccio, un piccolo strappo, le permetteva di infilare le dita per far accadere una vera magia: quando ritirava la sua mano, sul palmo, mostrava alcune piccole creature con antenne vibranti e un corpo sottile e dotato di una corazza tonda: piccole lumache di campagna.
All’interno del secchio pieno zeppo di lumache vive, c’erano rivoli di gelatina trasparente e piccoli grumi di schiuma. A terra, accanto ai piedi della venditrice, c’era una cesta tonda fatta di rami di salice invecchiato. Dentro una bilancia manuale per frutta e verdura ormai vecchia: era di un giallo sbiadito, e il piatto era sostenuto da una catenina rinforzata con pezzi di fil di ferro attorcigliato.
La cesta conteneva anche una busta di plastica bianca con dentro sacchetti trasparenti puliti e piegati in modo ordinato. Quando un passante le ha detto che voleva comprare un chilo delle sue lumache, lei ha sorriso e poi ha cominciato a trafficare per raccogliere le lumache in un sacchetto pulito e pesarle. Armeggiando con la bilancia come un vecchio timoniere sulla sua barca, si è messa a raccontare che viene da San Marcellino. Poi ha detto qualcosa come:
-Una come a me tiene tanti anni, potrei essere bisnonna. Però faccio ancora la vendita per strada perché la pensione non basta, che ci posso fare?” Alla fine, dopo lunghe trattative, il signore è andato via senza comprare quelle lumache già pronte. Non si erano accordati sul prezzo, oppure l’acquirente si era seccato per tutti quei discorsi. Così, dopo quella scena, pure se non mangio lumache, ho attraversato la strada per andare a comprarle. La signora mi ha sorriso e dopo avermi fatto uno sconto, forse per rispondere al mio gesto spontaneo, mi ha anche augurato una felice giornata.
Mi sono allontanato pensando alle lumache appena comprate e ho camminato fino alla libreria più vicina. Mi serviva un romanzo, volevo portarlo alla persona cara che andavo a trovare. Uscendo dalla libreria ho pensato: un romanzo e delle lumache… mi sa che lui la pensa come me: non le mangerà mai. Il libro potrà fargli piacere.
Sono arrivato a Casale e ho bussato al portone di A. e lui, dopo aver chiesto al citofono chi fossi, è venuto ad aprirmi. Indossava un cappello per nascondere la perdita precoce dei capelli dovuta allo stress mentale. Con una camicia larga nascondeva pancia e viso gonfi. Sotto gli occhi due profonde occhiaie: guardandolo ho fatto fatica a ricordarlo come il bel ragazzo che era anni fa. Con la sua carnagione scura, gli occhi azzurri e i capelli lunghi e ricci amava farsi vedere in giro sempre ordinato e ben vestito con abiti nuovi e di buona qualità. Stamattina la camicia, anche se ben stirata, era un bel po’ lisa sul collo e sulle maniche.
-Ciao, sei venuto veramente.
-Eh. Sono venuto, hai visto? Senti qui ci sono delle lumache e un libro. Spero ti piaccia il libro. Le lumache le liberiamo fra poco.
-Ah, grazie. Perché porti con te una busta di lumache?
-….
-Poi… un giorno me lo spieghi. Posso farti un caffè?
-Sì, fallo pure.
Entrando nel cortile della casa di A., ho scoperto che era solo. Al centro del cortile, sotto un vecchio albero di limoni, una sedia. Mi sono sentito come uno che va a trovare un anziano che pensa al tempo che non ha più.
A. ha solo qualche anno più di me. Non ha mai condotto una vita isolata, non in questo modo almeno. Dopo anni di lavoro come geometra nell’imprenditoria edilizia, poco prima di andare a convivere con la sua fidanzata, è stato lasciato.

Ferito da quel gesto, subito dopo A. è entrato in depressione. Poi ha perso anche il lavoro Alla fine, nel giro di due anni, si è ritrovato a vendere casa per pagare quello che restava di un mutuo ormai ingestibile. A., consigliato da uno zio, non è si è lasciato andare del tutto. Ha cercato altri lavori, ma non trovando una posizione stabile ha avuto un nuovo crollo di nervi. Non potendo gestire più la situazione, è tornato vivere con suo padre, un ex operaio che ha quasi sessant’anni e sbarca il lunario con piccoli lavori in nero.

Dopo il caffè, ho chiesto una sedia anche per me e ci siamo seduti nel cortile per parlare un po’. Guardando con attenzione A. ho notato che mentre mi parlava gli tremavano le mani. Ha fatto fatica pure quando ha provato ad accendere una sigaretta.
-Allora, come va?
– Eh, da quando sono tornato qui a Casale, sono passati tre anni e non ho ancora un lavoro. Faccio la vita di uno che si mette paura pure di girare a piedi per strada, qui a Casal di Principe come a Mondragone o Roma… L’ansia la sento sempre, dove mi trovo non importa.
-A parte l’ansia per il lavoro che manca, come ti senti?
-Non lo so neanche io. A settimane alterne vado in un centro di salute mentale. Il dottore mi ha dato un sacco di medicine forti. Dicevano che servono a dormire meglio e a non pensare alle cose brutte.
A., dopo aver perso sua madre intorno ai diciassette anni, si è trascinato fino al diploma che ha preso in un istituto tecnico paritario. Poi ha lasciato Casale per andare a fare il manovale con i muratori prima a Reggio Emilia, poi a Bologna e poi nella Svizzera italiana: a Lugano. Stamattina, a guardarlo, ripensando alla sua storia non mi pare possibile che una persona così giovane possa cadere così in basso in così poco tempo rimanendo in piena solitudine.
-Dai, è solo un momento. Poi passa, no?
-Io non ho fatto niente di male, a nessuno ho mai fatto del male.
-Guarda che lo so, ti conosco bene. Non devi dire così.
A., dopo quella mia risposta, ha smesso di parlare. Poi ha fissato il pavimento del cortile per qualche minuto. Gli occhi lucidi hanno trattenuto a stento le lacrime.
Poi mi ha detto:
-Grazie per il libro…
-Di niente. Vorrei vederti solo un po’ sereno… Ho parlato con il tuo psichiatra l’altro giorno.
-Che ti ha detto? Che sono pazzo e basta eh, te l’ha detto vero?
-No, ha detto altro. Ha detto che sei in gamba. Che tuo padre ti tratta male perché si aspetta da te chissà cosa… non è colpa tua se ora stai passando un momento difficile.
-E poi? Ti ha detto quando mi toglierà le medicine?
-Non lo sa ancora. Mi ha spiegato che ci vuole tempo e pazienza.
Poi A. si è messo a guardare di nuovo la punta delle sue scarpe, prima di buttare la sigaretta e muovere la testa a destra e a sinistra. Ho capito che la conversazione stava diventando troppo seria.
-Dai, non pensiamoci. Prendi le lumache, che hai lasciato di là. Le liberiamo qui nel terreno.
-Non è che si mangiano i fiori e le piante? Chi lo sente poi a papà?
-Non pensare a lui, se ti domanda qualcosa rispondigli che ha piovuto e sono uscite le lumache dal terreno… e che io te le ho portate per fare una cosa diversa.
A. è andato a prendere la busta di lumache, mi ha guardato un po’ con aria preoccupata e poi ha sorriso. Appoggiando il sacchetto sul terreno per fare uscire le piccole lumache ha usato una mano per aiutarle. La scena deve averlo impressionato e distratto dai pensieri brutti: le guardava meravigliato e stupito.
-Ora hai un esercito di lumachine, puoi mettere un allevamento e venderle a chi non trova compagni per andare in guerra!
-La guerra? Qui siamo alla fase che viene dopo la guerra. Qui la gente se le mangia le lumache, pure se è peccato. Queste qui le controllerò io, così avrò qualcosa da fare tutti i giorni.
-Meglio, no?
Quando lui ha parlato del poter fare qualcosa tutti i giorni, mentre fissava le lumache ormai libere, mi è venuto un nodo in gola. Così, per non piangere davanti ad A. l’ho salutato con la scusa dell’autobus da prendere, promettendogli che sarei tornato da lui un’altra volta. Sono rientrato a casa seduto sull’autobus, mentre il mondo a colori oltre il vetro scorreva lento. Io, piccolo cartone animato vivente, seduto in una grande scatola di latta con le ruote. Poi mi è venuta in mente una frase che ho letto su una grande pietra posta sulla riva di un piccolo ruscello popolato da rane: gli animali verdi che vivono qui non sanno che questa è casa loro.

Mario Schiavone

5 domande orticanti a Antonio Castagna autore di: “Tutto è monnezza”

Tutto è monnezza-Libro di Antonio-Castagna

“…capire come abbiamo fatto ad arrivare fin lì è invece la condizione indispensabile se vogliamo avere un futuro, altrimenti dopodomani, quando avremo finito di denunciare e di piangere i morti, saremo di nuovo punto e a capo, ciechi e sordi… (Antonio Castagna*)

“Tutto è monnezza” è un bel libro che prova a spiegare davvero cosa accade al ciclo dei rifiuti in Italia. Quando lo hai scritto hai pensato a un lettore ideale?

In realtà il libro un po’ spiega, un po’ si interroga. Io sono un cittadino che ha provato a capirne di più, ma che si ritrova in una sorta di labirinto fatto di cose incomprensibili: perché in Italia ogni Regione calcola la differenziata a modo suo? Perché ogni bacino di raccolta utilizza cassonetti e metodi di raccolta diversi? Tutto questo e altre incongruenze rendono poco credibile tutto il sistema. Nel nostro paese sono ancora tanti a pensare che dopo aver fatto la raccolta differenziata i rifiuti finiscono tutti insieme in discarica. Non è vero, tranne rari casi dove la situazione è particolarmente critica. Però il sistema è talmente ingarbugliato e contraddittorio che a me pare ovvio che ognuno immagini cose diverse. E poi c’è il fatto che le leggi e le regole vanno spesso in senso contrario al buonsenso diffuso. Ad esempio la legge dice che un bene, quando qualcuno ha l’intenzione di disfarsene, allora è di per sé un rifiuto. Però molti di noi hanno fatto esperienza di oggetti trovati vicino ai cassonetti, o lungo le strade, che hanno valore, possono essere recuperati e utilizzati, come è successo spesso a me quando vivevo a Palermo da studente. Per la legge prendere un oggetto ingombrante appoggiato al cassonetto è furto nei confronti del Comune, che ha la responsabilità della raccolta. Capisco le ragioni della legge, ma sperare che un cittadino comprenda regole come questa è veramente difficile. E pensare che l’Italia ha fatto propria nel 2010 una direttiva europea che impone di attivare la “preparazione al riutilizzo”, cioè un sistema agevolato per rimettere in circolazione beni ancora utilizzabili a cui è possibile evitare la discarica. L’Italia ha approvato la legge nel dicembre del 2010, ma mancano i decreti attuativi, e quindi niente preparazione al riutilizzo. Sono solo alcuni esempi, c’è dell’altro e tanti aspetti non li conosco neppure io. Il lettore a cui pensavo e penso è il cittadino mediamente interessato. Il discorso pubblico sui rifiuti è spesso concentrato sui problemi e sulle emergenze. Io ho provato a mostrare come i rifiuti siano una parte normale e inevitabile della nostra esperienza, che vanno trattati come una possibilità, perché se smetti di guardarli come scorie disgustose puoi scoprire che spesso contengono materia che ha valore. La domanda che mi faccio e faccio al lettore è come mai facciamo così fatica a vederli in questo modo.

Qui in Campania -lo dico per esperienza personale- si muore di tumore da tempo. La percentuale dei decessi non cala.  Anche (e non solo) a causa di alcune aziende del nord Italia e del Nord Europa, che hanno seppellito in queste terre materiale tossico di ogni tipo. Lo dicevano in tanti, da anni, nessuno ci credeva. Ora scopro tanti grandi profeti e tecnici ambientali che propongono grandi soluzioni senza mai interpellare la gente comune che qui ci vive. La domanda è: Cosa pensi del problema italiano dei rifiuti accumulati al sud e mai smaltiti?

Penso come dici tu che è un problema italiano, non semplicemente del sud, né del nord. Non abbiamo voluto e saputo guardare e ora che ci accorgiamo il sentimento dominante è di angoscia e rabbia. Abbiamo bisogno di riflettere, non solo di opporci e denunciare. Quello dei rifiuti è un mondo complesso, non possiamo semplificare troppo. E pure rispetto al sistema criminale dei rifiuti, c’è spazio per capirne di più. Denunciare è importante, curare e bonificare fondamentale, capire come abbiamo fatto ad arrivare fin lì è invece la condizione indispensabile se vogliamo avere un futuro, altrimenti dopodomani, quando avremo finito di denunciare e di piangere i morti, saremo di nuovo punto e a capo, ciechi e sordi, pronti a subire soprusi pur di raccogliere qualche briciola di benessere.

Credi davvero che smaltire rifiuti aiuti a vivere in pace anche con la propria anima?

Riusare, riciclare e smaltire sono solo possibilità di trattare i rifiuti. Il punto, credo, è però quello di sapere, capire, conoscere i processi produttivi, conoscere la materia di cui sono fatti gli oggetti. Conoscere significa decidere; se non conosci, qualcuno decide per te e c’è poco da stare in pace.

Che domande ricevi dal pubblico quando presenti in giro il tuo libro?

Le persone che incontro sono interessate a capire di più e meglio le questioni legate alla differenziata. Perché ci siamo abituati a ragionare in questi termini. Io propongo di ragionare in termini di materia, di valore, di possibilità. Ragionare in termini di raccolta differenziata del resto ha poco significato, tanto che le leggi europee, approvate anche dall’Italia, impongono di ragionare in termini di materia recuperata. Perché tu raccogli magari il 70% di plastica (che poi sono plastiche, diverse l’una dall’altra, alcune riciclabili, come il PET con cui sono fatte le bottiglie, altre no, come il polistirene con cui sono fatti ad esempio piatti e bicchieri di plastica, che è di bassa qualità e non vale la pena riciclare, quindi finisce in inceneritore). Dicevo quindi, raccogli il 70% di plastica, ma recuperi meno del 50% di materia, perché una parte di quello che hai raccolto sono scarti, errori dei cittadini, una parte non è comunque riciclabile. In Italia, malgrado le leggi, si continua a fornire un dato, quello della raccolta differenziata, che aveva significato quando si cominciò a raccogliere in maniera differenziata, ma che ora rischia solo di illudere. Un’altra cosa che chiedono è, allora come si fa? Si fa che si impara a sorridere di tutte le contraddizioni, del sistema e di ognuno di noi, e poi ci si dedica a conoscere e saperne di più. Pare poco, perché non è una soluzione pronta, è tanto, perché è la condizione per trovarle le soluzioni. Spero che “Tutto è monnezza”  dia un contributo in questa direzione.

Ti andrebbe di dirci qualcosa sul tuo prossimo libro?

Mi andrebbe se ne avessi in programma uno. Io faccio il formatore manageriale, mi sono avvicinato ai rifiuti lavorando con dirigenti e funzionari della Provincia di Trento che si occupano di rifiuti. Non sono un tecnico, uno specialista, quella che ho provato a raccontare è un’avventura, il tentativo di immergermi in un mondo talmente complesso da essere attraente per quanti risvolti presenta. Ho scritto e realizzato anche dell’altro, ma sempre in maniera saltuaria, nel tempo che mi lascia il mio lavoro e la vita che faccio, che sono sempre in treno a girare da una città all’altra. Nel 2004 ho pubblicato un libro di racconti, Mappumi; nel 2008 ho realizzato un documentario Teatri interrotti (che si trova on line tra l’altro); nel 2012 ho pubblicato un reportage sul lavoro di un gruppo di rovistatori Rom di Torino. Il libro si intitola Il futuro del mondo passa da qui; e ora Tutto è monnezza. Scrivere mi piace, ho anche un blog www.lavorobenfatto.blogspot.it dove mi interrogo sul senso e sul valore del lavoro, perché andando in giro per le aziende ho l’impressione il lavoro per molti (imprenditori, dirigenti, ma anche lavoratori) abbia finito per coincidere con una merce come un’altra. Ma nel lavoro ci sono i desideri, i progetti, i pensieri, dubbi, di persone la cui vita non è riducibile a una funzione. Il ritmo di scrittura dunque dipende molto dal ritmo del mio lavoro. In preparazione ho tante cose diverse, ho cominciato dei racconti, ho cominciato un romanzo, sto ragionando su un saggio, ne ho cominciato un altro. Non ho idea se porterò a termine qualcuno di questi progetti.

Antonio Castagna* è un formatore manageriale, blogger e autore di storie che vive a Torino. Ha pubblicato un libro molto utile che sta facendo un gran “rumore” utile a capire meglio cosa accade (o dovrebbe accadere) ai rifiuti che produciamo: “Tutto è monnezza. La mia dipendenza dai rifiuti”(LiberAria Edizioni).  In questo bel saggio l’autore spiega vita, morte e miracoli del ciclo dei rifiuti: in modo propositivo e costruttivo.

Per comperare “Tutto è monnezza” potete rivolgervi al vostro libraio di fiducia. Se lui non è convinto del nome della Casa Editrice. Se è “pigro” e non vi ascolta,  ditegli che LiberAria Editrice è distribuita da Messaggerie Libri. Capirà al volo di cosa state parlando. Per saperne di più su Antonio Castagna ecco il link del suo blog:

http://www.lavorobenfatto.blogspot.it/

Ps: Considerato che dalle parti di LiberAria Edizioni c’è un gruppo di ragazzi davvero coraggiosi (perchè capaci ancora di  credere nei libri) secondo me, un salto sul loro sito per capire meglio che libri pubblicano dovete farlo!  http://www.liberaria.it/

 

©Mario Schiavone per Inkistolio: Storie orticanti. RIPRODUZIONE RISERVATA DEI TESTI.

 

 

Sms dalla Campania.

Non ho molto da dire. La gente in Campania muore di tumore da anni, ormai.

Chi sopravvive  non trova un vero lavoro (come pagherà le cure mediche o l’affitto, ad esempio?), oppure non ha un letto d’ospedale in cui farsi curare dignitosamente ( come potranno assisterlo i familiari? dove finiranno gli anziani? E i bambini come nasceranno in questo stato di caos totale?) né la possibilità di far sentire la propria voce per davvero.

Molte domande. Quasi nessuna risposta. In tanti dicono le stesse cose di sempre. Sfruttando il momento di attenzione mediatica verso questa terra. Avete presente quelli che guardano un incidente d’auto in piena autostrada, assumendo quella faccia curiosa incapace di chiedere aiuto?  Ecco cosa accade in momenti difficili come questo: vip  che diventano comunicatori sociali super esperti di ogni questione grave- non tutti loro, ma molti- abbracciano questa o quella causa.  Vi garantisco che certi abili esperti del refrain “lotta-seria-la-campania-non-devemorire” qui non vengono mai.

La comunicazione, satura di promesse,  non diventa azione concreta.

Il problema per noi campani che viviamo qui,- italiani e umani come tutti voi che mi leggete seduti di fronte i vostri monitor-  è serio: le colpe vere, artefici di tutto questo colabrodo quotidiano e puzzolente, sono anche nazionali. Non solo locali.

Stavolta non c’entrano- come dice  e scrive qualcuno- le polemiche da condominio… che mirano sempre a  distinguere il modus vivendi degli abitanti che stanno a  nord o a sud del nostro Paese. La rosa dei venti non indica responsabilità. Siamo tutti italiani e il problema monnezza (urgente, reale…non di certo unico male di questa penisola) è italiano, in toto. Come sono italiani i parlamentari buoni e cattivi, i giornalisti capaci e quelli incapaci, i camorristi pentiti e quelli ancor più attivi di un tempo. Io faccio parte dei comuni mortali. Ogni tanto, quando non se ne può più di tutto questo caos, mi metto a gridare scrivendo quello che sento dentro. Solo questo. Le parole non cambiano il mondo. Neanche le grida. Forse, le storie (quando ben raccontate) questo mondo difficile lo raccontano davvero. Anche a chi non ha orecchie per ascoltare, corrente per accendere  tv o “lingua” per articolare domande. Non mi accontento, non mi rassegno. Rimango qui ad osservare a scrivere. Se avete storie da segnalarmi, raccontarmi o se volete sfogare solo un pensiero indignato io sono qui. Chi scrive ama ascoltare chi ha storie sincere. Chi è portatore di storie, pure se le racconta anche solo a voce, vivrà meglio questo momento difficile.

ps Quanto a Stanislao, lo ringrazio per il pezzo rap che mi ha fatto inserire in un mio racconto che sta facendo il giro del web. Buona lettura a tutti voi e grazie per la tantissime condivisioni, mail e telefonate.
http://terranera-mareblu.comunita.unita.it/2013/10/03/dalla-terra-dei-fuochi-fatui-cap%E2%80%99-e%E2%80%99-munnezza-un-rap-dedicato-a-caparezza/

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