We are family di Fabio Bartolomei, e/o editore 2013.
“Scrivere romanzi non è una passeggiata ma come attività ha un pregio innegabile: migliora l’esistenza” (Fabio Bartolomei*.)
Sei un pubblicitario, uno sceneggiatore e uno scrittore. Ti andrebbe di raccontarci quanto è faticoso scrivere professionalmente?
Devo essere onesto, me la sono sempre goduta un sacco. Quando facevo il copywriter a tempo pieno ero felice di lavorare come copywriter, quando ho fatto lo sceneggiatore ero felice di scrivere sceneggiature e appena la cosa ha iniziato a non divertirmi più ho smesso. Scrivere romanzi non è una passeggiata ma come attività ha un pregio innegabile: migliora l’esistenza. Io nella mia vita fondamentalmente ho scritto, ora lo faccio con un senso che mi pare finalmente compiuto. E quando le cose stanno così parlare delle nottate insonni, dei sacrifici e dello scarso ritorno economico sarebbe da ingrati.
In pochi anni i tuoi libri hanno colpito tantissimi lettori. Oltre alla genuinità delle storie, cosa ha “funzionato” secondo te?
Le storie che racconto sono emotivamente impegnative. Intendo dire che impegnano l’animo del lettore su più livelli: fanno sorridere, fanno commuovere, fanno entusiasmare e riflettere. Insomma credo che i miei romanzi offrano molto, si leggano senza fatica e non lascino vuoti. Mi pare una gran bella cosa (se poi dovesse saltar fuori che non è vero per favore non ditemelo).
C’è un narratore di storie – non vivente- che hai come riferimento?
No, non ho narratori di riferimento. Quando scrivo, più che altro, ho in mente dei grandi personaggi e le loro storie: Ivan Denisovic, Nathan Zuckerman, la famiglia Joad, Arturo Bandini, Florentino Ariza. Ma anche: Accattone, Peppe er Pantera e Antoine Doinel. Con la compagnia giusta si scrive meglio.
Rodrigo Garcia, ora che è un drammaturgo di successo, rinnega i suoi anni di lavoro come pubblicitario. Pensi che fare il copy, oggi, sia ancora una bella cosa?
Evito di risponderti, sono fresco di compleanno e nei panni del vecchio che dice Ai miei tempi sì che il copywriting aveva un senso proprio non voglio mettermici. La verità è che in periodi di crisi come questo ogni professione finisce per dequalificarsi. Perfino fare il parlamentare pare non sia più ‘sta gran pacchia.
Tuo nipote, in un futuro lontano, potrebbe guardarti negli occhi e dirti: “Nonno, voglio fare lo scrittore!”. Cosa gli diresti?
“Okay, perfetto, ma prima giurami due cose: 1) non diventare uno di quei giovani presuntuosi che appena finito il primo romanzo iniziano a inveire contro le case editrici che non spalancano le porte al loro talento 2) non diventare uno di quei vecchi inaciditi che dicono che la scrittura è morta e che è dai tempi di Pavese\Moravia\Dante che non si legge nulla di decente. Magari l’osservazione sarà pure giusta ma se contestualmente non sei stato capace di produrre un’opera in grado di riabilitare la letteratura italiana evita di aprire bocca”. Credo che con i nipoti sia importante avere un rapporto schietto e sincero.
Fabio Bartolomei* è nato nel 1967 a Roma, dove vive. Scrittore e sceneggiatore ha lavorato per anni in pubblicità diventando un copy di successo. Nel 2004 ha vinto il Globo d’Oro con il cortometraggio Interno 9. I suoi romanzi in Italia sono pubblicati tutti da E/O Editore. Il suo ultimo libro è uno dei più interessanti romanzi di questo” pazzo” 2013: “We are family”(E/O editore, 280 pagine 17 euro)
Cattivi soggetti, di Renzo Paris(Iacobelli Editore)
“…gli scrittori veri non sono tanti e non sono i giornalisti, i calciatori, i politici, anzi loro hanno avvelenato i lettori…” (Renzo Paris*)
Lei scrive da anni, ormai. Se la sente di dirci quando, secondo lei, la grande editoria italiana ha cominciato ad ammalarsi cercando nuovi clienti invece di veri lettori?
Negli anni Ottanta l’editoria pensò di rinnovare il parco giochi e alzò i compensi agli esordienti, che nei decenni precedenti, per la verità, erano stati pochi. Il mercato innanzitutto, il vitino dello scrittore, la facilità di lettura. Nelle case editrici decidono soltanto i distributori, nel bene e nel male. Di qui il romanzo di genere, introdotto dall’avanguardista Umberto Eco.
Ha insegnato a lungo. Cosa c’era di bello nell’insegnamento di un tempo e perché oggi insegnare è sempre più difficile?
Ho insegnato nelle scuole di ogni ordine e grado, per finire all’Università. Mi sono sempre divertito con gli studenti ricettivi, pochi per la verità. Negli ultimi anni però il numero di quelli lucidi si è assottigliato. Anch’io però sono invecchiato, non saprei.
Scrivere, secondo lei, cambia la realtà circostante? Se sì, mi piacerebbe sapere perché.
Scrivere cambia la realtà interiore, innanzitutto, accresce la sensibilità, e poi, alla lontana, certo può anche cambiare la realtà esteriore, ma molto alla lontana.
Scrivono in tanti, oggi. Scrivono i politici, gli attori e i calciatori. Solo i veri scrittori smettono di scrivere, talvolta perché pensano di non aver più niente da dire. Pensa esista un tempo per “dosare” la scrittura?
Scrivono tutti oggi, forse anche per via della disoccupazione di chi si è laureato e prova anche con la scrittura, ma gli scrittori veri non sono tanti e non sono i giornalisti, i calciatori, i politici, anzi loro hanno avvelenato i lettori che non sanno più riconoscere la pericolosità della scrittura. Il mio prossimo libro si chiama “Il fumo bianco” (Elliot editore) ed è una raccolta di poesia scritte negli ultimi vent’anni.
Ci racconti di un oggetto della sua infanzia che la rappresenta.
Ho trascorso la mia infanzia in Abruzzo, fino a tredici anni. I giocattoli ce li facevamo con le nostre mani, ed erano cavalli, carretti e monopattini. Ero affezionato a una statuina di San Pietro di bronzo che aveva un volto molto malinconico. Ne parlai nel mio romanzo “La croce tatuata”(Fazi editore) che fa parte della mia trilogia marsicana.
Renzo Paris* Poeta, narratore, saggista e insegnante è nato a Celano (AQ) nel 1944. Negli anni ha pubblicato diversi libri, fra i più noti: Cani sciolti (Transeuropa, 1988, tradotto in Francia), Frecce avvelenate (Bompiani, 1974), Filo da torcere (Feltrinelli, 1982), Le luci di Roma (Theoria, 1990), Squatter (Castelvecchi, 1999), Ultimi dispacci della notte (Fazi, 1999, tradotto in Germania). Ha raccolto le sue poesie in Album di famiglia (Guanda, 1990). Nel 1988 ha pubblicato un libro autobiografico sul ’68 (Cattivi soggetti, Editori Riuniti), nel 1995 Romanzi di culto (Castelvecchi) e un anno dopo la biografia di Alberto Moravia Una vita controvoglia (Giunti). Negli ultimi anni, altri suoi libri sono stati pubblicati da diversi editori italiani e stranieri. Ha tradotto e commentato le poesie di Corbière, Apollinaire, Prévert. Il suo ultimo libro è: Cattivi soggetti. Gli ultimi fuochi del Novecento(Iacobelli Editore,2013)
Paolo Piccirillo, autore di Zoo Col Semaforo (Nutrimenti)
“Se una storia non graffia, non è una storia” (Paolo Piccirillo*)
Hai pubblicato per Nutrimenti un libro molto intenso: “Zoo Col semaforo”. Ricordo bene quel periodo… ovunque si parlava di te come un giovane scrittore, dotato di talento e capace di ben altro. A quel punto, invece di fare la star nei salotti letterari, hai tutelato la tua vita privata. Scelta intelligente e sana. Ti andrebbe di dirci dove sei stato e cosa hai combinato in questa lunga pausa?
Diciamo che nessuno mi ha offerto un salotto romano. O un divano su cui stare, senza la richiesta di un affitto mensile; altrimenti avrei fatto volentieri la star! A parte le battute, per rispondere a questa domanda devo fare una premessa: io non sono una persona dotata di un’intelligenza razionale, che si sviluppa attraverso sillogismi e conseguenze, tipico appunto delle intelligenze vive. Tutt’altro. Ragiono in base a sensazioni soggettive e illogiche. Il punto è che mi fido molto di più delle mie sensazioni che del raziocinio o di ciò che mi sembra più ragionevole, perché le sensazioni spesso racchiudono quelle esigenze istintive; è ciò che io cerco. Per essere pratici: dopo “Zoo col semaforo”, il mio primo romanzo, avevo l’opportunità di frequentare – perché ammesso dopo le selezioni – il corso di sceneggiatura del centro sperimentale di cinematografia di Roma, da sempre il mio sogno. Rifiutai, perché non stavo più bene a Roma e perché sentivo la necessità – apparentemente immotivata – di andare in un posto dove la mia immaginazione si sentisse a casa, a suo agio; invece c’erano centouno motivi, ragionevoli, per cui rimanere a Roma a fare quello per cui continuo a studiare e a impegnarmi. Ho deciso così, in quel periodo, di andare in Spagna, tra Madrid e Ibiza, dove ho continuato a scrivere e a studiare sceneggiatura, e dove ho vissuto mondi molto lontani da me, conosciuto persone che sul mio cammino ordinario mai avrei incontrato. Ho dovuto relazionarmi con situazioni improbabili, ho fatto insomma quello che serve a uno scrittore e che faccio quando scrivo: ho vissuto gli altri lati della mia vita. A mio parere, per la mia crescita professionale, sono molto più utili di qualsiasi recensione positiva. Soprattutto per uno che è stato pubblicato a 23 anni.
In tanti dicono di scrivere perché “amano la scrittura”. Frase che dice ben poco, a mio avviso. Tu perché scrivi certe storie capaci di graffiare la pelle viva?
Prima di tutto grazie per aver definito così le mie storie, capaci di graffiare. Se una storia non graffia, non è una storia. Io personalmente non credo di amare la mia scrittura. Io amo profondamente le mie storie, che è diverso. Amo il mestiere dello scrivere, perché quando lo metto in atto mi rendo conto di possedere una fortuna enorme, che è quella di entrare all’improvviso nella vita dell’uomo bloccato nel traffico o della donna che attraversa la strada; perfetti sconosciuti che, nel migliore dei casi, proveranno delle emozioni grazie a me. Questa è una magia che la vita quotidiana non prevede. Mi piace entrare sotto la pelle di tante persone contemporaneamente, mi piace perché è un modo per fregare la matematica casualità del mondo; il teorema per cui posso incontrare solo chi è (quasi) come me, e solo uno per volta. In questo il mondo reale è riduttivo, e non mi accontento.
Diceva qualcuno che si arriva alla scrittura sincera dopo tanto dolore e rabbia, raramente perché il mondo è bello. Che cosa provi quando scrivi?
Quando scrivo, o quando penso alle mie storie, non sono né allegro né triste, non soffro né gioisco. Sono molto neutro. Piuttosto ci sono due elementi che convivono in me quando scrivo: la curiosità e la frustrazione. La frustrazione è il vero motore che mi fa arrivare a scrivere appunto. Io ho bisogno di pensare che non sono in grado di fare qualcosa, per poi farla; spesso, quando penso a una storia, penso anche, e lo faccio apposta, che non sarò in grado di scriverla. “Troppo difficile, non è cosa”, mi dico. E se dopo una settimana continuo a pensarlo, a frustrarmi, allora vuol dire che è la storia giusta. E poi c’è la curiosità di vedere che ne verrà fuori da quel documento word che provo a sporcare. La curiosità di vedere che forma assumeranno tutte quelle cose confuse che penso quando metto insieme facce, ricordi e ricordi mai esistiti. Riguardo al mondo, che non si scrive perché il mondo è bello, sono d’accordo. Io credo che chiunque prenda in mano carta e penna lo faccia perché vive nell’illusione di pensare che quella frase, quella parola che renderà il mondo un po’ più bello, verrà fuori proprio dalle sue mani. È un’illusione fondamentale questa per scrivere.
Che ne pensi di questa Campania, terra difficile ma bella, dopo tutto quello che hanno detto e scritto (sul casertano in particolare) altre voci in ogni angolo del pianeta?
Quando ultimamente ho vissuto in Spagna, mi sono reso conto di una cosa: quando sentivo la mancanza dell’Italia, sentivo la mancanza di Roma, non del mio paese d’origine, Santa Maria Capua Vetere o del casertano in generale. Allora mi sono posto delle domande e sono arrivato alla conclusione che la mia terra non mi è mai entrata nel cuore, nonostante i tanti anni vissuti lì, nonostante la nostalgia che a volte ho per amici o parenti, per quel senso dell’umorismo unico al mondo, o per il caffè (il caffè, che può sembrare una cosa da poco, ma qualsiasi campano che ha vissuto o vive all’estero sa di cosa sto parlando!). La mancanza però è un’altra cosa, si riferisce a qualcosa che avevi e che all’improvviso non hai più. Ecco, purtroppo, ed è molto triste dirlo, il casertano non mi ha mai dato nulla per cui provare mancanza. E non è perché c’è la camorra o perché esteticamente è una brutta zona. Io noto che la nostra è una terra che non offre motivi per cui fidarsi di essa. È una terra, il casertano, che non è casa. Però questo è un pensiero mio, e per altro anche inutile, perché al problema che ho appena sollevato non riesco a trovare una soluzione, una soluzione pratica; nella teoria ne ho molte. Ma è teoria, purtroppo.
Parlaci, se puoi, di un oggetto della tua infanzia che ti rappresenta.
A me viene in mente solo il pallone. Da piccolo non guardavo i cartoni animati, non ho mai avuto un soldatino (credo che mia mamma avesse l’ossessione che potessi ingoiarli, o qualcosa del genere). Appartengo a quella generazione, credo l’ultima, che ha avuto la fortuna di un’infanzia senza videogiochi. Ma soprattutto abitavo in un parco residenziale. Passavo tutta la mia vita giù a giocare a calcio. Davvero, dalla mattina alla sera, escluse le ore di prigionia a scuola. Il supersantos arancione, precisamente, rappresenta appieno la mia infanzia. Anche perché ero il più piccolo, quindi mi mettevano sempre in porta, e per dimostrare che ero bravo, ma soprattutto volenteroso, e magari sperare, un giorno, di giocare in mezzo, dovevo respingere quanti più supersantos era possibile. Mi ricordo che non perdevo mai di vista il pallone, durante le partite. Ho passato l’infanzia a illudermi che più il supersantos restava nel mio campo visivo, e più diminuivano le possibilità di ritrovarmelo poi alle mie spalle, in rete, che mi facessero gol insomma. Più lo guardavo e più pensavo che mi appartenesse. Mi sbagliavo di grosso.
*Paolo Piccirillo (1987) è nato a Santa Maria Capua Vetere (CE). Vive e lavora a Roma. Dopo aver pubblicato “Zoo col semaforo” (Nutrimenti 2010) è stato scelto per la lista dei 50 scrittori italiani under 40 più promettenti, stilata dal quotidiano Il Sole24Ore. Il suo ultimo libro, in uscita per Neri Pozza, è “La terra del sacerdote”.
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