Igiene mentale, ripulito con la carta di credito da macellaio

pillole

Droghe Vs Psicofarmaci

Carissimo Peppe Lanzetta, grazie al blogger Mario Schiavone posso dialogare con te. Ecco quanto volevo dirti.

Sei venuto a trovarmi in un momento difficile della mia vita. Sai bene che non amo vedere molto le persone quando sto male, dico  a me stesso, ma sappiamo entrambi che in fondo in fondo vedere quel tuo faccione buono mi fa stare bene. Pure se sto in un letto d’ospedale d’un reparto “ senza nome” nel quale ti dicono “uscirai domani, forse*”.

*Conosco gente appesa a quel forse da almeno 20 anni. Tu questo lo capisci, vero? Ci ritroviamo nella buffa posizione di poter  essere (tu) padre e (io)figlio.

Non siamo riusciti  a capirci molto di questa vita contemporanea, di questo tempo fulmineo e folgorante,  in questi due ruoli dico. Tu per motivi che ti porti dentro e a che volte escono fuori come farfalle chiuse in un vaso di vetro, un attimo prima di morire. Io che ho provato a combattere “la bestia” a mani nude, riportandone ferite gravi sul corpo che solo il tempo può lenire. Da super eroe saggio quale sei, non hai affrontato la bestia a mani nude per non ferirti, mentre io da piccolo e maldestro super eroe spicciolo di quartiere mi sono lanciato in ogni battaglia personale contro la vita. E la precarietà mi ha consumato il cervello, il cuore, l’anima. E più cambiavo lavoro, città, vita, più la bestia allargava le braccia contro di me per avvinghiarmi e affondare le unghie nella carne. Così, ora che siamo qui, in questo gioco a perdere proviamo a dire la nostra.

Molti, moltissimi, la stragrande maggioranza di quelli che conosciamo e che hanno la   mia età scappano da queste riflessioni e si drogano spegnendo il cervello. Senza pietà. E con la compostezza di chi ha i soldi per farlo nascondendolo al mondo. Perché, la verità è questa, le drogano funzionano. E non ti entrano più nel sangue, ma nel cervello sotto forma di numeri e quote.  Eccome se funzionano. Maledizione.

Basta trovare un tempio delle scommesse contemporanee ed entrarvi: tutto legale, tutto alla luce del sole, tutto gestito in maniera solida e pulita. Però a  me interessa poco la battaglia contro il gigante. Vorrei capire perché i ragazzi oggi, invece di perdere tempo correndo al parco, leggendo un libro o amoreggiando stanno davanti a quei maledetti monitor legalizzati.

Quanto tu eri giovane accadeva altro. E noi figli, della tua generazione, questo  lo sappiamo bene. Alla tua età, per ovviare a questo schifo chiamato eterno sballo della giovinezza che fu, si assumono droghe altre:gli psicofarmaci. Servirebbe un trattato (infinito?) del perché di certi comportamenti umani Però noi siamo comuni mortali, leggiamo libri, proviamo a decifrare il mondo e diciamo la nostra. Io mi ritrovo in una posizione contraria, per correggere delle tare familiari non ho mai preso droghe in vita mia, (né fisiche né virtuali) ma periodicamente,  vengo qui in ospedale per cure varie. Ed è doloroso tutto questo. Doloroso sapere che per frenare il mio malessere devo farmi prescrivere farmaci di una certa potenza. E notare la faccia del farmacista che dice: “Sono per lei queste?”

Ecco. E le storie poi? Vogliamo parlare delle storie dei pazienti finiti qui che hanno un pianeta, un mondo, un ecosistema solare intero da raccontare?

Penso sia necessario. Facciamolo. Scriviamoci qui in queste righe.

Quando ti va, quando puoi.

Io ci sono.

Aladdin Malek

 

Ci sono cose che non appaiono

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Ci sono cose che non appaiono. Credo, perché potrei dimostrarvelo su una di quelle lavagne scolastiche abbastanza grandi da contenere qualche metro di formule algebriche, che esistono cose e immagini del quotidiano vivere che non appaiono agli occhi dell’individuo contemporaneo comune. Alcune volte le immagini*, (*quanto ci accade, ovvero i fatti allo stato puro) della vita quotidiana entrano nella letteratura come “filtrati” attraverso una lente. Facendo uno sforzo di comprensione potremmo chiamare linguaggio narrativo quella “lente” e “mondo esterno” i fattori ambientali che convergono sotto la lente.
Ci pensavo stamattina, quando dopo aver comprato una scatola di cerotti per medicare la pelle (quelli per curare l’anima non li hanno ancora brevettati, sic!) mi sono messo a pensare alla realtà quotidiana prepotente che ci avvolge e sconvolge ogni giorno. I fatti concreti della vita di costruiscono e decostruiscono in ogni istante. E noi, attori della vita, quando siamo fortunati possiamo fotografare quanto viviamo e provare – se siamo bravi – a raccontarlo agli altri.
Esistono tante vite a questo mondo. Niente di più vero. Però esistono ancora più storie che provano, a volte riuscendoci altre volte fallendo, quella che chiamiamo vita reale. Non ho una cassetta degli attrezzi dotata di strumenti magici, e non sono un bravo meccanico capace di mettere a punto certe faccende complesse che ci travolgono in questa esistenza.
Per quanto mi riguarda, a 34 anni, faccio sempre più fatica a raccontare il mio vissuto. Perché in fondo, a dirla tutta, a molti le storie tristi non piacciono. Tanti sono quelli che cercano storie di successo o dal lieto fine perfetto come la forma di una merendina idrogenata.
Sono un diabetico della vita. I dolci (finali) fatti di successo mi fanno male.
Uno di voi mi ha scritto. Chiedeva le istruzioni per l’uso della vita. Non voleva sapere dove cercare il libro di Perec, ma capire come comportarsi in un momento difficile della sua vita.
Non ho saputo dargli una ricetta. Ho provato solo a dirgli “se vuoi davvero provare a resistere al caos di questa vita, cerca qualcosa in cui cimentarti”. Intendendo qualcosa di magnifico, potente ed esclusivo.
Ecco, detto questo spero di non ritrovarmi mai più a dover dispensare consigli. Né su questo blog, né di persona.
Io, i miei demoni interiori, un po’ li conosco. Per questa ragione non gioco mai a scacchi con loro: quando lo faccio, cosa rara, tendono a fottermi sempre. Barando in maniera triste, quasi grottesca.
E tutti i libri che leggiamo, servono a qualcosa in questa vita?- ha poi domandato l’amico che mi ha scritto.
Certo. Servono. A non morire sotto un temporale di arachidi unte che abitano, spesso, i meandri della nostra mente.
Pensando a Carmelo Bene, mi viene da dire – tenendo gli occhi che mirano in basso e con la faccia rossa per la vergogna- quanto segue: se è vero che il linguaggio ci “trapassa” e non ce ne accorgiamo, i fatti della vita reale con la stessa forza s’insinua dentro di noi privandoci di ogni forza. Con moti, e momenti, diversi in ogni occasione.
Per questa ragione, certi giorni, cerco una panchina isolata e mi siedo a piangere da solo. Ora credo di aver scritto e detto molto, troppo. Perdonatemi se vi ho rubato tempo. In momenti come questo, citando il James economista, mi lascio travolgere da quello che lui chiamava “il senso pungente della realtà”. E poi, a essere sinceri per davvero, per ritrovarlo quel senso mi metto a scrivere in maniera disordinata. Appunti sporchi, come questi che avete letto fin qui.

Senso delle cose che si perde e persone che cambiano.

Ecce Homo 2013. dell'artista campano Raffaele Bova.

Ho vissuto, intorno ai venti anni d’età, per un lungo periodo della mia vita a Torino.

Lì ho frequentato una scuola di scrittura creativa (ci andavo ogni giorno, con dedizione) e una facoltà universitaria (sedevo tra quelle aule numerate e affollate molto raramente, con avvilimento e senso di vuoto interiore).

Nella scuola di scrittura, in compagnia di un gruppo di aspiranti registi sceneggiatori e narratori, ho appreso che le Grandi idee creative partorite in piena notte e di punto in bianco non esistono. Ciò che è possibile ritrovare, in un momento poco preciso, è una certa visione del mondo e del gesto creativo; però servono tantissime letture e una quantità innumerevole di ore investite nel pensare (prima) e scrivere (dopo).

C’era, nella scuola di scrittura che ho frequentato, un senso fraterno fra noi allievi che in vita mia ricordo di aver provato solo da piccolo, quando ero un boyscout.

Dopo quel senso di fratellanza utile a stare insieme, venivano l’amore e il rispetto per i classici della letteratura, del cinema, del teatro e del fumetto: nessuno di noi aspirante scrittore o regista avrebbe mai ignorato i “maestri” o fatto di tutto per “dimenticarli” nel vano tentativo di una ricerca artistica fallimentare sin dagli esordi.

Se scrivo tutto questo pur sapendo (forse) di potermi sbagliare, c’è una ragione: molte di quelle persone, ragazzi e ragazze di allora che ho sentito molto vicini a me in un senso unico e speciale di fratellanza, oggi sono irriconoscibili. Svolgono il loro lavoro dei sogni. Leggi i loro nomi sui giornali e sulle copertine dei libri. In cima alle sceneggiature e in coda ai titoli dei film finiti. Eppure, alcuni di loro, a guardarli bene, hanno perso quel senso della ricerca artistica che rendeva ognuno di loro un semplice e comune appassionato fruitore di narrazioni e probabile futuro autore di storie.

Perché accade questo? Non ho una risposta. Manca il senso del gesto, una direzione interpretativa utile a capire meglio il perché del fenomeno. Ed io? Io che ero uno di loro, cosa faccio oggi? Sto in silenzio. Seduto a guardare. Oppure scrivo, sempre in silenzio. Cercando di ascoltare gli ingranaggi della mente che cigolano alla ricerca di una visione possibile delle cose che mi circondano. Tutto qui.

 

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