In merito a questa lettera di Aladdin Malek, lo scrittore Peppe Lanzetta ha deciso di narrare la sua visione di mondo, qui e ora: senza pensarci due volte.
Eccola:
Narrazioni e Visioni fuori dal comune!
In merito a questa lettera di Aladdin Malek, lo scrittore Peppe Lanzetta ha deciso di narrare la sua visione di mondo, qui e ora: senza pensarci due volte.
Eccola:
“…capire come abbiamo fatto ad arrivare fin lì è invece la condizione indispensabile se vogliamo avere un futuro, altrimenti dopodomani, quando avremo finito di denunciare e di piangere i morti, saremo di nuovo punto e a capo, ciechi e sordi… (Antonio Castagna*)
“Tutto è monnezza” è un bel libro che prova a spiegare davvero cosa accade al ciclo dei rifiuti in Italia. Quando lo hai scritto hai pensato a un lettore ideale?
In realtà il libro un po’ spiega, un po’ si interroga. Io sono un cittadino che ha provato a capirne di più, ma che si ritrova in una sorta di labirinto fatto di cose incomprensibili: perché in Italia ogni Regione calcola la differenziata a modo suo? Perché ogni bacino di raccolta utilizza cassonetti e metodi di raccolta diversi? Tutto questo e altre incongruenze rendono poco credibile tutto il sistema. Nel nostro paese sono ancora tanti a pensare che dopo aver fatto la raccolta differenziata i rifiuti finiscono tutti insieme in discarica. Non è vero, tranne rari casi dove la situazione è particolarmente critica. Però il sistema è talmente ingarbugliato e contraddittorio che a me pare ovvio che ognuno immagini cose diverse. E poi c’è il fatto che le leggi e le regole vanno spesso in senso contrario al buonsenso diffuso. Ad esempio la legge dice che un bene, quando qualcuno ha l’intenzione di disfarsene, allora è di per sé un rifiuto. Però molti di noi hanno fatto esperienza di oggetti trovati vicino ai cassonetti, o lungo le strade, che hanno valore, possono essere recuperati e utilizzati, come è successo spesso a me quando vivevo a Palermo da studente. Per la legge prendere un oggetto ingombrante appoggiato al cassonetto è furto nei confronti del Comune, che ha la responsabilità della raccolta. Capisco le ragioni della legge, ma sperare che un cittadino comprenda regole come questa è veramente difficile. E pensare che l’Italia ha fatto propria nel 2010 una direttiva europea che impone di attivare la “preparazione al riutilizzo”, cioè un sistema agevolato per rimettere in circolazione beni ancora utilizzabili a cui è possibile evitare la discarica. L’Italia ha approvato la legge nel dicembre del 2010, ma mancano i decreti attuativi, e quindi niente preparazione al riutilizzo. Sono solo alcuni esempi, c’è dell’altro e tanti aspetti non li conosco neppure io. Il lettore a cui pensavo e penso è il cittadino mediamente interessato. Il discorso pubblico sui rifiuti è spesso concentrato sui problemi e sulle emergenze. Io ho provato a mostrare come i rifiuti siano una parte normale e inevitabile della nostra esperienza, che vanno trattati come una possibilità, perché se smetti di guardarli come scorie disgustose puoi scoprire che spesso contengono materia che ha valore. La domanda che mi faccio e faccio al lettore è come mai facciamo così fatica a vederli in questo modo.
Qui in Campania -lo dico per esperienza personale- si muore di tumore da tempo. La percentuale dei decessi non cala. Anche (e non solo) a causa di alcune aziende del nord Italia e del Nord Europa, che hanno seppellito in queste terre materiale tossico di ogni tipo. Lo dicevano in tanti, da anni, nessuno ci credeva. Ora scopro tanti grandi profeti e tecnici ambientali che propongono grandi soluzioni senza mai interpellare la gente comune che qui ci vive. La domanda è: Cosa pensi del problema italiano dei rifiuti accumulati al sud e mai smaltiti?
Penso come dici tu che è un problema italiano, non semplicemente del sud, né del nord. Non abbiamo voluto e saputo guardare e ora che ci accorgiamo il sentimento dominante è di angoscia e rabbia. Abbiamo bisogno di riflettere, non solo di opporci e denunciare. Quello dei rifiuti è un mondo complesso, non possiamo semplificare troppo. E pure rispetto al sistema criminale dei rifiuti, c’è spazio per capirne di più. Denunciare è importante, curare e bonificare fondamentale, capire come abbiamo fatto ad arrivare fin lì è invece la condizione indispensabile se vogliamo avere un futuro, altrimenti dopodomani, quando avremo finito di denunciare e di piangere i morti, saremo di nuovo punto e a capo, ciechi e sordi, pronti a subire soprusi pur di raccogliere qualche briciola di benessere.
Credi davvero che smaltire rifiuti aiuti a vivere in pace anche con la propria anima?
Riusare, riciclare e smaltire sono solo possibilità di trattare i rifiuti. Il punto, credo, è però quello di sapere, capire, conoscere i processi produttivi, conoscere la materia di cui sono fatti gli oggetti. Conoscere significa decidere; se non conosci, qualcuno decide per te e c’è poco da stare in pace.
Che domande ricevi dal pubblico quando presenti in giro il tuo libro?
Le persone che incontro sono interessate a capire di più e meglio le questioni legate alla differenziata. Perché ci siamo abituati a ragionare in questi termini. Io propongo di ragionare in termini di materia, di valore, di possibilità. Ragionare in termini di raccolta differenziata del resto ha poco significato, tanto che le leggi europee, approvate anche dall’Italia, impongono di ragionare in termini di materia recuperata. Perché tu raccogli magari il 70% di plastica (che poi sono plastiche, diverse l’una dall’altra, alcune riciclabili, come il PET con cui sono fatte le bottiglie, altre no, come il polistirene con cui sono fatti ad esempio piatti e bicchieri di plastica, che è di bassa qualità e non vale la pena riciclare, quindi finisce in inceneritore). Dicevo quindi, raccogli il 70% di plastica, ma recuperi meno del 50% di materia, perché una parte di quello che hai raccolto sono scarti, errori dei cittadini, una parte non è comunque riciclabile. In Italia, malgrado le leggi, si continua a fornire un dato, quello della raccolta differenziata, che aveva significato quando si cominciò a raccogliere in maniera differenziata, ma che ora rischia solo di illudere. Un’altra cosa che chiedono è, allora come si fa? Si fa che si impara a sorridere di tutte le contraddizioni, del sistema e di ognuno di noi, e poi ci si dedica a conoscere e saperne di più. Pare poco, perché non è una soluzione pronta, è tanto, perché è la condizione per trovarle le soluzioni. Spero che “Tutto è monnezza” dia un contributo in questa direzione.
Ti andrebbe di dirci qualcosa sul tuo prossimo libro?
Mi andrebbe se ne avessi in programma uno. Io faccio il formatore manageriale, mi sono avvicinato ai rifiuti lavorando con dirigenti e funzionari della Provincia di Trento che si occupano di rifiuti. Non sono un tecnico, uno specialista, quella che ho provato a raccontare è un’avventura, il tentativo di immergermi in un mondo talmente complesso da essere attraente per quanti risvolti presenta. Ho scritto e realizzato anche dell’altro, ma sempre in maniera saltuaria, nel tempo che mi lascia il mio lavoro e la vita che faccio, che sono sempre in treno a girare da una città all’altra. Nel 2004 ho pubblicato un libro di racconti, Mappumi; nel 2008 ho realizzato un documentario Teatri interrotti (che si trova on line tra l’altro); nel 2012 ho pubblicato un reportage sul lavoro di un gruppo di rovistatori Rom di Torino. Il libro si intitola Il futuro del mondo passa da qui; e ora Tutto è monnezza. Scrivere mi piace, ho anche un blog www.lavorobenfatto.blogspot.it dove mi interrogo sul senso e sul valore del lavoro, perché andando in giro per le aziende ho l’impressione il lavoro per molti (imprenditori, dirigenti, ma anche lavoratori) abbia finito per coincidere con una merce come un’altra. Ma nel lavoro ci sono i desideri, i progetti, i pensieri, dubbi, di persone la cui vita non è riducibile a una funzione. Il ritmo di scrittura dunque dipende molto dal ritmo del mio lavoro. In preparazione ho tante cose diverse, ho cominciato dei racconti, ho cominciato un romanzo, sto ragionando su un saggio, ne ho cominciato un altro. Non ho idea se porterò a termine qualcuno di questi progetti.
Antonio Castagna* è un formatore manageriale, blogger e autore di storie che vive a Torino. Ha pubblicato un libro molto utile che sta facendo un gran “rumore” utile a capire meglio cosa accade (o dovrebbe accadere) ai rifiuti che produciamo: “Tutto è monnezza. La mia dipendenza dai rifiuti”(LiberAria Edizioni). In questo bel saggio l’autore spiega vita, morte e miracoli del ciclo dei rifiuti: in modo propositivo e costruttivo.
Per comperare “Tutto è monnezza” potete rivolgervi al vostro libraio di fiducia. Se lui non è convinto del nome della Casa Editrice. Se è “pigro” e non vi ascolta, ditegli che LiberAria Editrice è distribuita da Messaggerie Libri. Capirà al volo di cosa state parlando. Per saperne di più su Antonio Castagna ecco il link del suo blog:
http://www.lavorobenfatto.blogspot.it/
Ps: Considerato che dalle parti di LiberAria Edizioni c’è un gruppo di ragazzi davvero coraggiosi (perchè capaci ancora di credere nei libri) secondo me, un salto sul loro sito per capire meglio che libri pubblicano dovete farlo! http://www.liberaria.it/
©Mario Schiavone per Inkistolio: Storie orticanti. RIPRODUZIONE RISERVATA DEI TESTI.
“…investire in educazione, nella scuola, diffondere cultura è davvero un metodo efficace di contrasto della criminalità, davvero delicata è quindi la missione di chi deve insegnare, può segnare il destino di una persona e non solo…” (Ciro Pizzo*)
Insegni sociologia, a Napoli: ti andrebbe di consigliare un libro di narrativa contemporanea, a chi vuol scoprire la vera Napoli?
Domanda non semplice, direi. Mi viene sempre in mente un libro, che mi pare emblematico delle occasioni mancate di Napoli, cioè di quella condizione che non permette mai di riconoscere un processo come pienamente compiuto in questa città, che è poi in realtà uno spazio che supera ampiamente i confini amministrativi di Napoli. Si tratta di Dieci, di Andrej Longo, un libro che poteva essere, che sembra sempre sul punto di essere Napoli, e poi per una ragione o per l’altra si condanna all’incompiuto, si condanna a una lotta costante con una lingua che sembra davvero una forza invincibile, una forza che non si riesce mai ad addomesticare, che attraversa con forza gli sforzi di dire Napoli, ma che resta inattendibile fino in fondo. Ecco, indicherei quel libro, che non mi ha pienamente convinto, proprio come emblematico di quello che sembra un destino di queste terre. Altrimenti, altra lotta con la lingua, Malacqua, di Nicola Pugliese, oppure Il mare non bagna Napoli, della Ortese, di altro spessore, sicuramente.
La cultura araba rientra, in modo concreto, fra le tue passioni. Quali scrittori poco conosciuti in Italia consiglieresti a un giovane lettore?
Sì, mi piace molto il mondo islamico, ma non solo. Tra gli autori di questo universo è difficile scegliere, sarebbe come indicare un solo autore per l’Europa intera. Si tratta di una vera e propria ecumene culturale. Qualche nome ce l’avrei. Inizio con ‘Abd Ar-Rahman Munif, del quale credo che “All’est del Mediterraneo” sia un capolavoro assoluto, se devo anche scegliere qualche titolo. Poi penso a Sahar Khalifa, voce straordinaria dalla terra martoriata della Palestina e poi segnalerei un nome dall’Iran, Sharhnush Parsipur, straordinaria davvero. Poi la cultura araba in terra europea, tra le cui voci segnalo da anni quella di Kader Abdolah, esule iraniano in Olanda, che continua una instancabile traduzione della cultura d’origine in contesto europeo.
Un bel saggio che hai consigliato di recente ai tuoi allievi?
Qui è ancora più complicato, il saggio che consiglio sempre ai miei studenti, soprattutto se non lo hanno tra i libri di testo, è quello di Robert Castel, il saggio intervista con Claudine Haroche, Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé. Ma potrei sembrare di parte. Altrimenti, molto bello e che mi ha fatto molto riflettere e che penso sia utile per capire come funziona un mondo visto in genere con occhi molto diversi, e che per questo consiglio, è “Il cucchiaino scomparso” di Sam Kean. Capisco però che può sembrare strano come riferimento, ma è un altro mio pallino, la cultura legata alle scienze, fisica, matematica, ne sono affascinato e cerco di tenermi aggiornato.
A quanti anni hai scoperto i libri di narrativa e qual è stato il primo romanzo che hai letto?
La memoria non è il mio forte, a dire il vero, quindi direi il falso sicuramente. Ma ci sono alcuni episodi che mi sono rimasti impressi. I libri consigliati a scuola sono stati i primi romanzi, racconti, di cui ricordo “La strada per Agra” di Aimée Sommerfelt, e Telé di Pina Lamberti Sorrentino. Poi per me ci fu un allontanamento dovuto a Dickens, “David Copperfield”. Ci misi un paio d’anni per tornare alla lettura e diventare in realtà solo da quel momento un vero lettore, quasi seriale. Mi ricordo il primo romanzo prestato, letto due volte in pochi giorni, che era “La nausea” di Sartre e poi il primo acquistato in una libreria di Aversa che forse conosci, “I dolori del giovane Werther” di Goethe, letto tutto d’un fiato in un giorno e da lì non mi sono fermato più, almeno fino ad adesso.
Insegni anche ai detenuti sottoposti a regimi particolari. Che cosa ti ha insegnato questa esperienza?
Ho fatto qualche esame a detenuti studenti, per la precisione. Un paio di casi mi sono rimasti. Uno riguarda un detenuto nominato anche in un libro fin troppo noto concernente le nostre terre, seguito da una madre che veniva costantemente a prendere notizie, cercava di capire programmi, le cose da studiare, procurava i libri al figlio. Che si è impegnato anche per un periodo. poi era indeciso, forse frustrato per la mancanza di futuro di cui ora si rende sempre più conto. Sto parlando di qualcuno che probabilmente non uscirà più dal carcere. Caso simile a un altro detenuto, più avanti negli anni, che rimpiangeva di aver trovato troppo tardi i libri sulla sua strada, di aver rovinato la sua vita. Quest’ultimo continua a impegnarsi e superare brillantemente gli esami. Quel che mi viene ogni volta in mente è che investire in educazione, nella scuola, diffondere cultura è davvero un metodo efficace di contrasto della criminalità, davvero delicata è quindi la missione di chi deve insegnare, può segnare il destino di una persona e non solo, può aprire orizzonti che non si chiuderanno più. O che comunque apriranno al dubbio, apriranno all’alternativa. Ma non deve essere una sorta di somministrazione di nozioni e via, si tratta di lavorare a fondo con i ragazzi, di spingerli a rispettare la voce degli altri, che la si trovi stampata nei libri o per la strada, poco importa. Mi ha insegnato che non si fa mai abbastanza, questa esperienza. Che occorre non mollare mai e che bisogna lavorare sempre, perché anche piccole gocce di passione possono cambiare vite.
Ciro Pizzo* si è laureto in Filosofia nel 2000 presso l’Università di Napoli Federico II (110/110). Si è occupato, negli anni, di studi legati al controllo sociale di vari fenomeni di devianza, da quella imputata ai Rom e ai gruppi marginali sino alla follia. Collabora alle attività didattiche degli insegnamenti di Sociologia giuridica, Sociologia, Topografia dello spazio sociale, Sociologia del mondo islamico, Istituzioni e nutamento sociale presso il “Suor Orsola Benincasa”. Il suo ultimo libro è: “Ordines moderni. Per una euristica degli ordini della modernità” pubblicato da La Città del Sole Editore.
© Mario Schiavone per Inkistolio: Storie orticanti. RIPRODUZIONE RISERVATA DEI TESTI
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