5 domande orticanti allo scrittore Raffaele Mozzillo

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“Conservo in ogni caso un fortissimo legame con tutto ciò che si lega alla città di Napoli, che resta il mio luogo di elezione sentimentale, di ispirazione continua, di riferimento culturale e di linguaggio.”*

Quanto tempo hai impiegato a scrivere il tuo primo romanzo?

Se ti riferisci al tempo per scrivere la prima versione di Tutte le promesse, ci sono voluti circa dodici mesi di scrittura non sempre quotidiana, considerando che vanno escluse le ore giornaliere impiegate per il lavoro e le notti durante le quali mi addormentavo davanti al computer ancora prima di cominciare a buttare giù qualche parola. Se invece andiamo a calcolare anche i tempi per le riscritture, le revisioni e le riletture del testo, che poi per me sono parte integrante dell’opera di “scrittura”, allora direi che ci sono voluti circa tre anni per arrivare al testo definitivo pubblicato.

Quali sono i tuoi autori di riferimento rispetto alla narrativa classica?

Volendo restare nella gravità del romanzo di cui parliamo, gli autori di riferimento non sono stati per niente classici, ma sono autori che fanno parte dell’universo lettearario italiano contemporaneo. Prima fra tutti, il Pier Vittorio Tondelli di Altri libertini, soprattutto per un certo tipo di linguaggio fatto di slang e parlata giovanile, ma anche per la profondità che riesce a dare alle storie, che a un primo approccio possono colpire soltanto per la loro ferocia crudele ma che poi poco per volta entrano nel profondo dei sentimenti umani. Altri riferimenti essenziali per il romanzo sono stati Ermanno Rea e Antonio Pascale, in particolare, di quest’ultimo, il libro La città distratta.

I personaggi che vivono nel tuo primo libro hanno qualcosa di nostalgico, come se vivessero sospesi in quell’epoca precisa,  una sorta di temporaneità totalizzante. Quanto ti manca questo sud in cui sei cresciuto?

In effetti buona parte del “mio sud” mi manca proprio per questo forte legame nostalgico: mi manca quello che è stato il mondo che mi ha circondato negli anni della mia adolescenza da cui, per motivi più pratici che sentimentali, mi sono dovuto allontanare in un certo momento della vita, pur restando nello stesso paese: mi manca quello che era il microcosmo perfetto in cui il bambino che ero stava per farsi adolescente. Conservo in ogni caso un fortissimo legame con tutto ciò che si lega alla città di Napoli, che resta il mio luogo di elezione sentimentale, di ispirazione continua, di riferimento culturale e di linguaggio.

Il male. O il bene. Nessuna via di mezzo capace di superare un periodo che definirei “post-gomorra”. Penso a film e telefilm sul fenomeno camorristico, tutti dalla visione monoculare, quindi parziale. Quale è la tua idea in merito a quel tipo di storie?

Io credo che ogni storia vada raccontata bene, qualsiasi storia essa sia. Credo anche che Gomorra – immagino che di questo stiamo parlando – in tutte le sue eccezioni letterarie cinematografiche e televisive sia un prodotto culturale di alto livello. Per cui non vedo nessun motivo per cui una cosa come Gomorra non debba essere diffusa in tutte le forme possibili. Mi viene in mente anche un altro bravissimo scrittore: Luigi Romolo Carrino, che con la “saga” di Mariasole (i romanzi sono Acqua storta, La buona legge di Mariasole e il recente Alcuni avranno il mio perdono) racconta le vicence di una famiglia criminale scavando però nel profondo delle relazione, dei sentimenti, con una scrittura poetica e carnale che non ha niente a che vedere con una forma scritta di tipo documentaristica imponendosi invece come opera di altissimo livello letterario. Poi ci sono anche tanti altri prodotti che possono essere dello stesso livello o no. Ma il fatto di pubblicare o no un’opera scadente è un tema dentro cui si può racchiudere qualsiasi produzione artistica e non ha niente a che vedere, ripeto, con le tematiche che tocca. Insomma, non è certo a causa di chi la racconta che la camorra esiste, ma chi la racconta non fa altro che attingere da una realtà: sono gli interpreti che si ispirano ai personaggi reali della malavita e non il contrario.

Ti andrebbe di dirci a cosa stai lavorando per il futuro?

Per il futuro in realtà non ho ancora le idee ben chiare. So soltanto che la realtà da cui attingerò sarà sempre quella dell’hinterland, quella zona che mette insieme – in una convivenza spesso anche forzata – non solo città come Napoli e Caserta ma che contiene dentro di sé migliaia di piccolissimi e grandi comuni che vanno a formare un’enorme e densa periferia urbana partenopea: è il mondo che conosco, per ora, ed è il mondo che mi sento intanto di raccontare.

 

*Raffaele Mozzillo è uno scrittore di origine campane. Vive a Roma, dove lavora come editor.

Il suo ultimo libro è: Tutte le promesse – Una storia apocrifa” Effequ Editore 2017

Senza maschere sull’anima- Memoir

Comunicato Stampa

Il libro-intervista Senza maschere sull’anima – Gianluca Di Gennaro si racconta presentato alla libreria Quarto Stato di Aversa, domenica 17 dicembre

Invito-Presentazione-Libro-Riccio-DiGennaro (1)Domenica 17 dicembre 2017, alle ore 11, presso la libreria Quarto Stato di Aversa, si presenta il libro-intervista del giornalista Ignazio Riccio: Senza maschere sull’anima – Gianluca Di Gennaro si racconta. Partecipano all’evento, moderato dalla giornalista Anna Sgueglia, l’autore, l’attore Gianluca Di Gennaro e il magistrato Nicola Graziano.

Il libro

Il giornalista de Il Mattino Ignazio Riccio e il giovane attore napoletano Gianluca Di Gennaro si incontrano ai piedi del Vesuvio, per parlare di cinema e impegno sociale. Protagonista mai dimenticato di Certi bambini. Nipote di Nunzio, Gianfranco e Massimiliano Gallo, Gianluca ha bruciato le tappe, con una carriera artistica suggellata da successi cinematografici e televisivi.

Per l’interpretazione di Rosario, nella pellicola citata dei fratelli Frazzi, a soli dodici anni, riceverà diversi riconoscimenti, fra cui il Premio Flaiano. Qualche anno dopo diventa il pupillo dell’attrice e regista Valeria Golino, che lo vuole protagonista del suo primo cortometraggio, Armandino e il Madre. Prima, Gianluca prende parte a fiction di successo Rai e Mediaset come ‘O professore, con Sergio Castellitto, Come un delfino, con Raul Bova, L’oro di Scampia, con Beppe Fiorello, e alle fortunate serie tv Il clan dei camorristi e Gomorra.

Il tema sociale è una costante nelle storie che interpreta, e qui l’attore si racconta, mettendo in luce lo spaccato umano e sociale delle periferie della città partenopea. Partendo da Scampia, dove Gianluca è idolatrato da tanti giovani borderline, che vivono sul filo tra legalità e illegalità, l’attore racconta la propria esperienza a contatto con queste realtà difficili, e riflette sull’influenza che il cinema ha nelle scelte di vita di questi suoi coetanei.

Il sud e Napoli sono al centro dei suoi interessi, artistici e personali e Gianluca si mostra come un ragazzo che, pur non avendo vissuto la Napoli di Diego Maradona, Massimo Troisi e Pino Daniele, sogna di ripercorrere la stessa strada dei suoi idoli.

Il libro offre spunti di riflessione anche sul cinema italiano, che sta ritrovando nuova verve proprio grazie alla crescita di una generazione di giovani registi e attori di talento.

 

 

 

Ignazio Riccio (Caserta, 1970) è un giornalista che, da anni, ha collaborato e collabora con quotidiani e riviste nazionali, come Il Mattino di Napoli, Left e Pagina 99. Ha diretto il mensile di inchieste e approfondimenti Fresco di Stampa ed è responsabile della comunicazione per le case cinematografiche indipendenti Klanmovie Production e Resilienza Production.

 

Gianluca Di Gennaro (Napoli, 1990) è un attore italiano, che ha preso parte, nonostante la giovane età, a numerose produzioni cinematografiche e televisive nazionali e internazionali.  Ha lavorato con registi del calibro di: Mario Martone, Antonio e Andrea Frazzi, Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini, Claudio Giovannesi, Cosimo Alemà e Valeria Golino e con attori di successo come: Sergio Castellitto, Raul Bova, Beppe Fiorello, Stefano Accorsi e Alessandro Preziosi.

Chi vi ha mandato? Venite da lontano? A chi appartenete?

Venditrice di lumache casertane.

Per un periodo della mia vita, qualche anno fa, pur di sbarcare il lunario mi sono cimentato in lavori fuori da ogni mia aspettativa. Voglio dire: ci sono lavori che quando li vedi svolti da altri, per la fatica che comportano, dici a te stesso che mai e poi mai farai qualcosa del genere per sopravvivere. Ottimismo della giovane età di un aspirante scrittore, potremmo definirlo. Infatti, come accade spesso, la vita contraddice in pieno le nostre intenzioni.
In quegli anni, ogni giorno, salivo in sella alla mia bici chiamata Silver e – in cambio di uno stipendio da fame pagato a 180 giorni dai signori di certe cooperative sociali del sud che lucrano sulle spalle dei poveri cristi – percorrevo cinque chilometri, per andare a casa di una coppia di anziani che mi aspettavano dal lunedì al venerdì: piena estate, sole cocente, automobilisti strafottenti che fingevano di non vedermi tagliandomi la strada di continuo.
Arrivavo a casa del signor T e della signora D stanco e sudato, come uno che ha attraversato un pezzo di deserto con il sole allo zenit. Dopo un saluto veloce e una breve sosta in bagno per cambiare la maglietta sudata che indossavo avvicinavo il signor T per capire come stava: gli facevo sempre le stesse domande sulla sua salute e su come aveva dormito, sul pranzo del giorno e sul cielo sulle nostre teste e lui, puntuale, le evitava tutte.
Replicava alle mie domande con tre quesiti esistenziali fissi:

Chi vi ha mandato? Venite da lontano? A chi appartenete?
Ogni volta mi presentavo, gli parlavo un po’ di me e appena conquistavo la sua fiducia quotidiana riprendevamo – come il giorno prima – a giocare a carte: tornei interminabili a due di scopa, briscola e rubamazzetto.
La signora D, malata da diverso tempo ma più lucida del marito T, indossava i suoi anni di vita come un vecchio vestito cucito male prima, e consumato troppo dal tempo… dopo.
Eppure, D, era dolcissima: felice delle mie visite e dell’aiuto che le davo in casa quando stava bene, parlava con me per ore della sua vita passata, dei sogni che faceva, delle strane facce che vedeva ogni giorno nel grande televisore che avevano in casa.

In un mattino di pioggia estiva, il signor T mi accolse in casa gridando parole che più o meno suonavano così: Se vuoi essere un uomo libero, devi fare quello che ti riesce bene. Rimanendo nel tuo campo.
La verità, mi dicevo dentro di me – mentre lui gridava quelle parole come un vecchio attore che calca la scena di casa sua in un teatro senza spettatori – è che quando ti arrangi svolgendo mille lavori non pagati o sottopagati fai fatica a ricordare a te stesso di essere capace in qualcosa che ha un campo di appartenenza.
Quell’anno avevo conseguito un diploma di Operatore Socio Assistenziale, conoscevo le basi del primo soccorso in caso di emergenza e me la cavavo bene in ogni faccenda domestica. Eppure, ogni giorno della mia vita, mi domandavo: servirà imparare (e vivere) tutto questo a uno che nella vita vuole solo diventare uno scrittore?
È servito fare quel lavoro. Lo comprendo, appièno, solo oggi.
Stare con gli altri, affondare corpo e anima nell’esperienza umana della convivenza con chi è meno fortunato di noi, è davvero utile a capire da dove veniamo e che strada intendiamo percorrere. E poi, a dirla tutta, quando vivi certe esperienze non fai che raccogliere storie e suggestioni tutto il tempo.
Forse, le storie che scrivo, vengono da gente come il signor T e la signora D. Per questo motivo, anni dopo quell’esperienza, mi dico che sarò sempre loro grato per il tempo trascorso assieme.

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